Cifra buffa

[con un giorno di ritardo, ma va bene lo stesso]

Quarantaquattro la considero una cifra buffa forse per non pensare al fatto che è un’età che lascia pochi dubbi riguardo a chi si è, si sarà e cosa si farà.

Aristotele – così mi sembra di ricordare – diceva che il picco di esperienza e attività si raggiunge a quarantonove anni.
Se è così, me ne mancano ancora cinque. Poi è tutta discesa.

A Nord del comunismo

In un bar lui mi allunga un paio di santini elettorali e, tra lo scherzo e l’ammiccamento, mi dice che si candida alle comunali. Nel bigliettino scorgo subito il simbolo di Forza Italia così gli dico: “Guarda, mi sa che non ti voto proprio. Sono comunista.” E lui: “Allora prendilo per tua moglie”. Per tagliare il discorso gli dico: “No, è comunista anche lei”. Lui ridendo prosegue: “Pure tuo figlio?” Rido anch’io.
E lui: “Mi dispiace. Che famiglia disgraziata.”

Poi, prima di andare via, ritornando serio mi fa: “Però strano. Del Nord e comunista.”
Sarebbe stato da chiedergli lumi in proposito e capire che idea si era fatto del Nord e del comunismo. Ma credo che sarei ancora lì.

Cambio responsivo

I'm waiting for the man - Viktor Hertz  - FlickrNella vita di un blog arriva il momento di diventare responsive.
Oggi è quel giorno; e sarebbe anche l’occasione buona per tornare a scrivere qualcosa qui sopra invece che strafogarsi di pillole social.

Per l’occasione non poteva mancare un imprevisto: nel passaggio al nuovo tema, tutti i commenti pubblicati per ora non sono leggibili.

Ho scritto del bug nel forum dei costruttori. Aspettiamo cosa dicono.
Poi, nel caso, a denti stretti, si ricambierà vestito.
Fino a allora, commenti chiusi, come nel 2002.

[update] Quelli di Bluthemes hanno risolto il bug in pochi giorni. Bravi, così ora i commenti rifunzionano per benino.

Il modello tedesco (per il manifesto)

Fino a tre anni fa sono stato un lettore assiduo de il manifesto; l’ho letto per più di quindici anni, tutti i giorni, anche quello in cui costò cinquantamila lire.
Poi, sia per i tagli personali che ognuno è costretto a fare in questi tempi di merda, sia perché la linea del giornale non la capivo più – e più andava avanti e meno mi convinceva – ho smesso di comprarlo, continuando a leggerlo saltuariamente online. In mezzo alle altre testate e blog che esistono sul Web, il manifesto non era più la mia fonte primaria di informazioni; anzi, certe volte mi faceva anche incazzare.

In queste ultime settimane, seguendone le vicende – che sto raccogliendo in uno storify che trovate due post più sotto – mi sono reso conto che il rischio che il manifesto chiuda mi dà molto fastidio. Sarà che è l’ennesimo capitolo della frantumazione della sinistra che non conosce limiti da vent’anni a questa parte – altro che pas d’ennemis à gauche! – e che non voglio accettare. Ma può anche darsi che c’entri una certa parte di nostalgia di noi stessi1 che, se nel caso di Parlato e degli altri fondatori e fondatrici porta legittimamente a scrivere libri autobiografici,2 nel mio caso e di molti altri miei coetanei quarantenni, può portare più miseramente a sciancarsi sul divano e al bofonchiare disilluso che fa tutto così schifo che conviene sprofondare nell’anomia scalcinata e feroce tipica del nuovo secolo.
Ecco il nostro modello tedesco - Foto via Hammett Riot

Digressioni intimiste a parte, il succo è che mi piacerebbe che l’avventura de il manifesto non finisse, specie in questo modo.
E qui veniamo al sodo, e al presente.
Lo dico subito e spassionatamente: tra le due ipotesi – ormai inconcialibili – su come continuare l’esperienza e il percorso del giornale, preferisco decisamente quella della proprietà collettiva.
Un modello tedesco simile a quello della Taz, proposto, insieme a una trentina di collaboratori, da Guido Ambrosino che de il manifesto è stato corrispondente da Berlino per molti anni: una proprietà condivisa che permetta di praticare una autonomia di gestione e di linea politica supportata da una base di lettori –  in Germania la chiamano Genossenschaft – che non si limitino a essere semplice consumatori ma che contribuiscano attivamente a «fare il giornale» insieme ai redattori.

Per portare avanti questa soluzione domenica scorsa al Nuovo Cinema Palazzo a Roma si è tenuta un’assemblea aperta. Nei giorni successivi ho cercato in Rete notizie e resoconti, ma non ho trovato nulla. Così ho scritto a Guido Ambrosino che mi ha risposto subito spiegandomi la situazione e confermandomi la distanza ormai irrecuperabile tra le posizioni dell’attuale direzione e quella di chi sostiene il modello Taz.

Insomma, i tempi sono stretti, ma vale la pena di provarci. Per questo aggiungo la mia firma in fondo a questo appello che ricevo, pubblico e diffondo. Mica può vincere sempre il mercato.

Appello a lettori, collaboratori, redattori

Come lettrici e lettori del «manifesto», collaboratori, impiegati, redattori o ex redattori di questo giornale, proponiamo di associarci in cooperativa per acquistarne la testata, che presto sarà messa in vendita. Questo giornale è nato nel 1971 grazie a una sottoscrizione tra i suoi sostenitori. Con la loro partecipazione attiva potrà continuare a vivere e mantenere la sua autonomia.

Abbiamo bisogno di questo strano «quotidiano comunista», dell’impulso radicaldemocratico e libertario iscritto nella sua vicenda. Le sue fondatrici e fondatori rivendicavano il diritto a definirsi comunisti anche senza tessere di partito. Dal Pci erano stati radiati perché denunciavano l’irrealtà del socialismo nel «socialismo reale». Continua a leggere…

  1. Espressione che rubo a Valentino Parlato che l’ha usata per chiudere una sua intervista sul libro “La rivoluzione non russa. Quarant’anni di storia del “manifesto”. L’intervista è stata rilasciata a Fahrenheit nello stesso giorno in cui Parlato ha lasciato il quotidiano da lui fondato nel 1971. Qui il podcast []
  2. Rossana Rossanda, “La ragazza del secolo scorso”; Luciana Castellina, “La scoperta del mondo”; Lucio Magri “Il sarto di Ulm” oltre al sopracitato libro-intervista di Valentino Parlato []