Fino a tre anni fa sono stato un lettore assiduo de il manifesto; l’ho letto per più di quindici anni, tutti i giorni, anche quello in cui costò cinquantamila lire.
Poi, sia per i tagli personali che ognuno è costretto a fare in questi tempi di merda, sia perché la linea del giornale non la capivo più – e più andava avanti e meno mi convinceva – ho smesso di comprarlo, continuando a leggerlo saltuariamente online. In mezzo alle altre testate e blog che esistono sul Web, il manifesto non era più la mia fonte primaria di informazioni; anzi, certe volte mi faceva anche incazzare.
In queste ultime settimane, seguendone le vicende – che sto raccogliendo in uno storify che trovate due post più sotto – mi sono reso conto che il rischio che il manifesto chiuda mi dà molto fastidio. Sarà che è l’ennesimo capitolo della frantumazione della sinistra che non conosce limiti da vent’anni a questa parte – altro che pas d’ennemis à gauche! – e che non voglio accettare. Ma può anche darsi che c’entri una certa parte di nostalgia di noi stessi che, se nel caso di Parlato e degli altri fondatori e fondatrici porta legittimamente a scrivere libri autobiografici, nel mio caso e di molti altri miei coetanei quarantenni, può portare più miseramente a sciancarsi sul divano e al bofonchiare disilluso che fa tutto così schifo che conviene sprofondare nell’anomia scalcinata e feroce tipica del nuovo secolo.
Digressioni intimiste a parte, il succo è che mi piacerebbe che l’avventura de il manifesto non finisse, specie in questo modo.
E qui veniamo al sodo, e al presente.
Lo dico subito e spassionatamente: tra le due ipotesi – ormai inconcialibili – su come continuare l’esperienza e il percorso del giornale, preferisco decisamente quella della proprietà collettiva.
Un modello tedesco simile a quello della Taz, proposto, insieme a una trentina di collaboratori, da Guido Ambrosino che de il manifesto è stato corrispondente da Berlino per molti anni: una proprietà condivisa che permetta di praticare una autonomia di gestione e di linea politica supportata da una base di lettori – in Germania la chiamano Genossenschaft – che non si limitino a essere semplice consumatori ma che contribuiscano attivamente a «fare il giornale» insieme ai redattori.
Per portare avanti questa soluzione domenica scorsa al Nuovo Cinema Palazzo a Roma si è tenuta un’assemblea aperta. Nei giorni successivi ho cercato in Rete notizie e resoconti, ma non ho trovato nulla. Così ho scritto a Guido Ambrosino che mi ha risposto subito spiegandomi la situazione e confermandomi la distanza ormai irrecuperabile tra le posizioni dell’attuale direzione e quella di chi sostiene il modello Taz.
Insomma, i tempi sono stretti, ma vale la pena di provarci. Per questo aggiungo la mia firma in fondo a questo appello che ricevo, pubblico e diffondo. Mica può vincere sempre il mercato.
Appello a lettori, collaboratori, redattori
Come lettrici e lettori del «manifesto», collaboratori, impiegati, redattori o ex redattori di questo giornale, proponiamo di associarci in cooperativa per acquistarne la testata, che presto sarà messa in vendita. Questo giornale è nato nel 1971 grazie a una sottoscrizione tra i suoi sostenitori. Con la loro partecipazione attiva potrà continuare a vivere e mantenere la sua autonomia.
Abbiamo bisogno di questo strano «quotidiano comunista», dell’impulso radicaldemocratico e libertario iscritto nella sua vicenda. Le sue fondatrici e fondatori rivendicavano il diritto a definirsi comunisti anche senza tessere di partito. Dal Pci erano stati radiati perché denunciavano l’irrealtà del socialismo nel «socialismo reale». Continua a leggere…