Il riso del vivente consuma le bare

“Caracollate da soli, armati della sola forza che dispensa da armi e armature, sdegnando gli amici della morte e il sarcasmo dei cadaveri.

Il riso del vivente consuma le bare.”

Raoul Vaneigem, “Bambini che dissiperete l’incubo del vecchio mondo”
Foto di Tish Murtha | via The NYT
Foto di Tish Murtha | via The New York Times

Signora VDL

Stamattina, poco prima delle sette, suonano alla porta. Apro e vedo una signora di mezza età, tutta vestita per benino, gli occhi spiritati di chi dorme poco. Non faccio in tempo a chiederle chi è che la signora fa un mezzo passo indietro e mi salta addosso con tutte le sue forze. Non so come, ma pur insonnolito com’ero, riesco a scansarla e quella rovina per terra, atterrando di mento sul pavimento con un rumore sordo.
L’ho lasciata lì svenuta per un po’, poi le ho offerto un caffé e l’ho accompagnata fuori: era la Voglia Di Lavorà che anche quest’anno a fine vacanze ha provato il solito assalto. Inutilmente.

Il piacere solitario

Arthur Penn, Bonnie and Clyde (1967)

(Arthur Penn, “Lettera agli amici di Torino e Bologna”)

E leggete, vi prego, leggete libri. Siamo in un’epoca in cui le immagini digitali ci saltano addosso da ogni direzione, stregandoci. Ma vi prego di non abbandonare il piacere solitario di leggere. Nei grandi libri ci sono insegnamenti che vi torneranno utili quando affronterete la storia che volete raccontare attraverso il cinema. Nei grandi libri si possono trovare struttura, forma e ritmo narrativo. I libri concedono il lusso di ritrovare i passi che ci hanno intrigati. Sono, molto spesso, lezioni di cinema. Abbiamo molto da imparare da questi grandi narratori della storia umana.

Su carta, e-book o qualsiasi altro supporto: l’importante è l’azione e le sue conseguenze.

Il blogger postumo e Majakovskij

Stanotte ho letto l’intervista a bgeorg sul blogger postumo. L’ho fatto con mesi di ritardo; una lettura postuma.
L’ho fatto perché sono anni che voglio lasciar scritte sul blog queste parole di Roman Jakobson su Majakovskij e questa mi sembra l’occasione giusta. Non riguarda i blogger, la Rete e tutte le altre cosette, ma molto di più.

“Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse rimanere un passato, s’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo nel futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente. Noi siamo i testimoni e compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora.
La vita quotidiana è rimasta indietro.
Sappiamo che già i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la vita quotidiana. Ma i nostri padri avevano ancora residui di fede nel suo carattere confortevole e universale. Ai figli è rimasto soltanto un odio nudo per il ciarpame ancora più logoro ed estraneo di quella vita. Ed ecco i tentativi di organizzare la vita personale assomigliano agli esperimenti per scaldare un gelato.
Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di uomini dello scorso millennio”

Marxionne a Detroit

L’amministratore delegato di Fiat e Chrysler, Sergio Marchionne, inaugura a Detroit il nuovo anno aggiungendo al consueto maglioncino scuro un volto da barbudos completo di sciarpone grigio.

E chi se ne strafotte – potrebbero rispondere gli operai e i delegati della FIOM che dal primo dell’anno si son visti sfrattare da Mirafiori, certamente più preoccupati dalla gestione autoritaria di Marchionne che delle sue mise da perenne casual Friday.

Più che giusto, ma una riflessione veloce e qualche ipotesi vale la pena farla.

Al primo impatto il nuovo look potrebbe essere un invito alla sobrietà e ai sacrifici che il governo Monti con aplomb e grigia stitichezza sta proponendo alla solita maggioranza di popolazione.

Ma a Marchionne, che pur apprezza Monti, credo freghi poco di fare da testimonial a uno Stato e ai suoi problemi. Lui è un manager globale, ha tre cittadinanze, mica puoi imbrigliarlo nelle beghe nazionali.

Poi, in questi giorni, leggendo questo post su Giap, mi è tornato in mente quello che, all’incirca un anno fa, ha scritto Mario Tronti a proposito dell’AD Fiat:

È un politico fuori del palazzo. Non viene però percepito come un esponente della società civile. A meno di sorprese, o di svolte clamorose, non si sente parlare di una sua discesa in campo. Non è un Montezemolo che dal predellino della sua rossa Ferrari o dal suo passato di presidente della Confindustria si affaccia sul teatrino della politica. Non è nemmeno il solito governatore di Bankitalia, pronto a correre a salvare i conti pubblici. Marchionne è il rappresentante di un’antipolitica, diciamo così, nobile, comunque non plebea, sicuramente non populista. È lui il vero uomo del fare. Il suo maglioncino d’ordinanza è più che un vezzo: blu, come le tute dei suoi operai. Dà piuttosto l’idea di una scelta simbolica. Mi dicono che si è presentato così al Quirinale, ricevuto dal capo dello Stato. L’etichetta istituzionale, espressa nelle grisaglie degli uomini politici, non fa per lui. Interessante è questa volontà di potenza extraistituzionale, che vuole marcare una differenza formale. Come dire: io maneggio i problemi reali, mi occupo di rapporti materiali, sono sempre sul luogo di lavoro, non posso stare in giacca e cravatta.

(Mario Tronti, “Berlinguer a Pomigliano” in “Nuova Panda, schiavi in mano”, Derive Approdi, 2011)

Come fai a dirgli di rimanere e rispettare le regole a uno così?

Parcheggiare con Rousseau | incubo n.4

Rousseau: «Vi piacciono i gatti?».
Boswell: «No».
Rousseau: «Ne ero sicuro. È un segno del carattere. In questo avete l’istinto umano del dispotismo. Agli uomini non piacciono i gatti perché il gatto è libero e non si adatterà mai a essere schiavo. Non fa nulla su vostro ordine, come fanno altri animali».
Boswell: «Nemmeno una gallina, obbedisce agli ordini».
Rousseau: «Vi obbedirebbe, se sapeste farvi capire da essa. Un gatto vi capisce benissimo, ma non vi obbedisce».

(da Visita a Rousseau e a Voltaire di James Boswell, p. 72-73)

A una decina di metri vedo il sociologo Calzolai. Sta sul bordo d’una piazza vicina a casa mia (una delle rarissime piazze dove le automobili non possono entrare) e sta parlando con un ragazzo con una casacca arancione, il blocchetto di carta in mano e il marsupio appisolato  intorno alla vita.
Il sociologo si mette una mano sulla fronte e ascolta, fa caldo, questi trenta gradi di maggio picchiano sodo su tutti, specie sui parcheggiatori, obbligati a non abbandonare la strada pittata di strisce blu anche sulle modeste asperità dei sampietrini.

– “Ma che hai parcheggiato a pagamento?” – gli dico io appena dopo esserci salutati.
– “No, ho parcheggiato lontano. Col parcheggiatore ci parlavo perché era uno studente che ha fatto la tesi con me. Ora fa il parcheggiatore” – mi risponde il Calzolai mentre ci si avvia verso un bar.
– “Che tesi era?”
– “Su Rousseau. Sai che m’ha detto?”
– “Che t’ha detto?”
Bella, sì, la tesi su Rousseau – m’ha detto – il brutto è che aveva ragione