I due del treno | incubo n.3

C’erano questi due di fronte a me che parlavano fitto fitto. Un uomo e una donna sulla cinquantina con le magliette a maniche corte e delle riviste spiaccicate sulle gambe.
– Anch’io che credi? Anni di gavetta e pezze al culo fino a più di quarant’anni.
– Gastrite?
– Ulcera.
– Ecco.
– Perforante.
– Mi dispiace.
– Ho anche lavorato con Ronconi.
– Ah
– Sono stato a vivere in India e a New York. Un casino di laboratori e seminari in tutta Europa.
– Pagato?
– Niente o quasi niente.
– Come campavi?
– Lavoravo in una tipografia.
– Bello?
– Molto bello. Mi piaceva, ho imparato un mestiere.
– Era faticoso?
– Non tanto. Era un po’ pericoloso, per il saturnismo.
– L’avvelenamento da piombo?
– Sì. Un paio di vecchi compositori erano intossicati di sicuro.
– Che facevano?
– Gli si atrofizzavano le mani, a volte sparlavano o entravano in paranoia.
– Il latte glielo davano?
– Un litro al giorno, ma solo dopo che erano nati i sindacati. Prima niente.
– E poi che hai fatto?
– Dove, in tipografia?
– No, in generale.
– Mi sono rotto i coglioni e ho mollato il teatro.
– E ora che fai?
– Aspetto che mi ripigli la voglia.
– Ah
– E tu cosa fai adesso?
– Scrivo un saggio.
– Bello.
– Macché.
– Ti è sempre piaciuto scrivere.
– Se avessi avuto i mezzi per viaggiare sempre credo che non avrei scritto un rigo.
– Veramente?
– No, ma l’ha detto Vittorini.
– E che c’entra?
– Niente, non c’entra niente, scusami.
– Perché l’hai detto allora?
– Mah, così, per dire una cosa, per prenderti un po’ in giro
– Per prendermi in giro?
– Sì, dai.
– Quasi dieci anni che non ci vediamo e tu dopo dieci minuti mi prendi in giro?
– Era così, per sdrammatizzare un po’.
– Perché io drammatizzavo?
– Sì, mi è sembrato di sì.
– Ma quando? Su che cosa? Di quale cosa in particolare stai parlando?
– Calmati, perché la prendi così?
– E come cazzo dovrei prenderla?
– Ah, belle parole, sì. Bravo.
– Senti: ho drammatizzato che cosa?
– Quasi tutto.
– Ma che dici? Come ti permetti?
– L’hanno ascoltata tutti la tua epopea. Lei l’ha sentito bene, non è vero?
(e mi ammiccava alzandosi gli occhiali scuri)

Mi sono svegliato e i due sul treno per Berlino non c’erano più. Faceva già caldo e c’era la luna piena.

Le pillole e le rose | incubo n.2

Pacman stoppedAvevo un faccione giallo, la bocca aperta e mi muovevo abbastanza liscio se andavo dritto. Quando c’era da svoltare era un casino: era come se non conoscessi la dimensione della profondità; per questo non potevo pencolare in parabolica e scattavo di quarantacinque gradi, in culo alla prospettiva.

Mangiare mangiavo solo pillole. Di continuo, senza requie. Non c’era un attimo della giornata in cui non fossi in cerca di quelle robine bianche, fragili e allineate come le briciole di Pollicino. Asservito al bisogno, la peggiore schiavitù, quella che ti trascina nei mercati, in attesa di padroni che ti faranno la cortesia di comprarti.(1) Chi invece non ti userà nessuna cortesia sono dei cosi colorati, dei piccoli fantasmi, che se ti prendono ti ficcano i loro spunzoni negli occhi e t’ammazzano lì sul posto.

Tra le pillole ce ne sono alcune speciali e rare: sono quelle che lampeggiano. Quando riesco a ingollarne una arriva il meglio perché per pochi secondi i fantasmini cambiano di colore, s’impauriscono, diventano blu di fifa, e, quando riesco a incontrarne uno, lo faccio fuori solo a toccarlo. Da una ventina d’anni però di pilloline lampeggianti non se ne trovano più e questo rovesciamento dialettico non può più avere luogo: i fantasmini rimangono sempre invulnerabili e intoccabili. Mi ci viene la rabbia e lo sconforto ma non c’è modo di intaccarli, impaurirli o almeno renderli innocui.

Eppure non è la fine della storia, le pilloline bianche sono lì, sempre più lustre e decantate: la mia è fame antica e il bisogno morde.

Quando mi sono svegliato ero avvolto in un lenzuolo blu, tirato fin sopra la testa, in una casa in Occidente.

(1) Simon Linguet, Théorie des lois civiles, 1767.

Lo sponsor che t’ammazza | incubo n.1

Ero molto più vecchio di adesso e s’era dentro a un’agenzia di comunicazione, di mattina.

Io arrivavo in ritardo, col giacchetto di pelle con le tasche piene di ritagli di giornale, appunti, foglietti, post-it biancicati, mezze sigarette, filtrini e tabacco sparso che sapeva di cuoio.
La project-manager mi faceva un cenno come a dire: toh, è venuto anche oggi, io mi sedevo, aprivo il portatile, scaricavo la posta e poi mi alzavo e andavo alla sua scrivania dove c’era un mio amico grafico, molto bravo, che gli faceva vedere le bozze che aveva preparato per una marca famosa (sembrava proprio la Coca Cola). Era roba buona e la manager me la passava in mano senza guardarmi negli occhi.

Allora sbottavo: “Sempre sponsor. Cerca lo sponsor. Ma lo sponsor ce l’hai? E chi ti sponsorizza? Le sinergie! Il ritorno sull’investimento, il target, il briefing. E il budello delle vostre mamme?”

Alcuni mi guardavano e ridevano, un altro si vergognava da morire, la manager rimaneva con la faccia all’ingiù, un emoticon di donna, un vestito nuovo tutte le mattine.

Io continuavo: “Ma tutti i soldi che paghiamo allo stato dove cazzo finiscono? Chi cazzo se li piglia?”
Il grafico più giovane mi fissava interessato, sapeva che lavoravo lì da parecchi anni, lui era arrivato da un mese scarso, poteva essere mio figlio. Guardava i miei capelli molto corti e bianchi e il mio giacchetto nero di pelle.
Ha aspettato che finissi, si è alzato e mi è passato accanto: “Caffè?” m’ha chiesto.

“Sembri un personaggino di Brecht” m’ha poi confidato vicino alla macchina del caffé.
“Ah sì?” gli ho risposto io. “E te chi saresti?
“Io sono uno di quei bambini che dissiperanno l’incubo del vecchio mondo” e m’ha strizzato l’occhio, offrendomi una sigaretta.

Quasi non ci credevo, ero felice, così felice che mi veniva da urlare, ma mi sono svegliato e sono andato a comprare “il manifesto” che faceva trentotto anni precisi.

Da gettare

Siccome le parole rimangono importanti sarà bene fare un po’ di repulisti nel vocabolario da portarsi appresso nell’anno zeronove che viene tra poco a spiegarsi;

ci sono da gettare le seguenti parole/frasi/espressioni:

“piuttosto che”
Usata in continuazione invece del più schietto “o”, ultimamente rimanda sempre più spesso al povero jet-slang delle starlette dopo sei mesi di dizione o alle sbrodolate acide dei vari capetti di turno che, dopo un master alla Bocconi, si sentono in dovere d’angariare i lavoratori di qualsiasi media azienda; se la sentite pronunciare in qualche riunione ricordatevi bene chi ha avuto la sfrontatezza di buttarvela addosso: sarà la stessa persona che, con  cinereo aplomb, cercherà di fregarvi su tutta la linea.

“sacrifici”
Sentita e risentita per troppe decine d’anni, va evitata come la peste fosse solo per il fatto che ha messo in mezzo e calpestato le giovinezze dei nostri genitori, la vita intera dei nostri nonni e lo stesso intenderebbe propinare a chi c’ha già dei figli. Nata sotto uno dei troppi governi Andreotti, avallata dall’esterno anche dal PCI, ce la troviamo sempre in mezzo quando le magagne dell’economia di mercato vengono a galla e c’è bisogno impellente di stronzi qualsiasi per caricarsele sulle spalle e tirare avanti. Se la chiamano “austerità” non fatevi ingannare: è la stessa merda.

“stato/statista”
Veloci a sbarazzarsi di questa coppia di vecchi barbogi, ombre di loro stessi e più arroganti delle loro ex-forme reali: se il primo è franato sotto i colpi spernacchiatrici delle merci, libere d’andare dove cazzo gli pare, il secondo non è che l’ombra di un’ombra anche se dice che scopa tutte le notti e gli sono ricresciuti i capelli.

–  “ma anche”:
L’espressione fa schifo già per il fatto che l’avverbio affossa l’avversativa: se avverso qualcosa significa che ci sono delle differenze, che ho il coraggio di tenere fermi dei punti e agire di conseguenza senza che un sopracciglio di Ratzinger o un prurito di Colaninno abbiano la possibilità di sputtanare il tutto nel contrario di tutto. Un piedi qua, un piede là e il cazzinculo di serie: così ci vorrebbe il signore di tutti i “ma anche”. Via di qua.

Ci si rilegge a anno nuovo, nel frattempo vedete di non ricominciare a bucarvi.

Preti

« Io la domenica non ho mai detto messa, è il giorno che devo passare con mio figlio… »

(Padre Gabrielli, Boris 2 | 11 ep.)

Don Ciro | by Mario PerrottaNell’undicesima puntata di Boris 2, il personaggio di padre Gabrielli, consulente spirituale e agente di Mariano Giusti – entrambi interpretati da Corrado Guzzanti – m’ha ricordato molto don Ciro, il violento e spiccio prete inventato dal genio indomito di Gianfranco Marziano.

Se non avete mai ascoltato “Il codice Don Ciro” di Gianfranco Marziano mi dispiace. Davvero.

[disegno: “Don Ciro” | di Mario Perrotta]

Sceneggiatura di una sceneggiatura di appunti

Enzo scrive la sceneggiatura di un testo teatrale; nella sceneggiatura, lui stesso, Enzo – il protagonista della rappresentazione teatrale – sta scrivendo una sceneggiatura. Nella sceneggiatura, che il protagonista sta scrivendo, compare un altro Enzo che sta scrivendo la sceneggiatura di una rappresentazione in cui c’è proprio lui… come protagonista che …
(Enzo)

B. Ma che ci metti nella sceneggiatura che quello, e che quell’altro… e che quell’altro ancora… e che poi… ma insomma!!! Cazzo ci metti?

A. Ci metto Carnaby Street… Ma insomma via. E parto di seguito.  A spron battuto. Recitando, come di seguito:
E rincorri ancora le idee. Subito dopo ti domandi “quali”. Poi torni ad inseguire due tette che compaiono all’improvviso per strada; ti ci perdi dietro: ti ci puoi perdere dentro. E sfuggire ancora una volta, inseguito, a Carnaby Street, dove…

B. Carnaby Street? Ma perché…

A. Boh, solo che le strade di Londra ci stan sempre bene. Londra. Mi ricordavo solo di quella strada. Ci metto questa strada nella sceneggiatura.

B. Te sei grullo, se devi metterci una strada di Londra… mica ci puoi mettere Carnaby Street… che c’azzecca con un film dell’horrore…

Ho capito… Sì… Con Vampirum III… Carnaby Street non ci azzecca nulla… forse hai ragione… ma allora… che strada di Londra ci metto?

B. Scusa, ma, a questo punto: Perché Londra? Anzi, se proprio vuoi che te lo dica… ma che “film”… ma che “horrore”… te sei fuori… caro il mio ciccio… te sei belle che cotto… Te ne torni a Vigevano…

A. A parte il fatto che… come cazzo ti è venuto in mente “Vigevano”? Sono nato nel Sud… nel profondo Sud… e parlo questa “lingua” del cazzo… pé piacé a vù… fije e buttana… tinete a nebbia e ci rumpete la minchia pecché siti tristi… voi du nodde… mann’attene a fanculooooo

B. Fai come meglio pensi… potrei pure incazzarmi dopo questo “fanculoooo”… potrei farlo. Ne avrei tutte le ragioni. Via, dai…

A. Dai che… fije…

B. e dai, lasciami parlare.
A parte il fatto che io so toscano… e che te  sei un cretino… Ma, ti prego… dimmelo… dimmelo… ma… perché Londra?

Ps
Enzo… Enzo… Ci sei?

Enzo (però, non mi chiamo Enzo, ndr)

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Il pezzo che avete appena letto è opera del sociologo e fratello catr-amìco Calzolai che lo scrisse una sera d’un mesetto fa, ragionando con noialtri di Jorge Luis Borges, di finzione e realtà e di conseguenti attacchi alla Monoforma.