Sono forse pochi (molto pochi) coloro a cui interesserà sapere che nel 1886 Friederich Nietzsche trascorse alcune settimane nella dépendance dell’hotel “Kursaal d’Italia”, sulle alture di Camogli, nel territorio della frazione di Ruta, a pochi chilometri da Genova.
Settantotto anni dopo, nel 1964, a una decina di chilometri da dove aveva alloggiato l’autore di “Umano, troppo umano”, arrivò con la sua seconda famiglia Luciano Bianciardi, in fuga da Milano, la città dei quartari, della sede della Montecatini e delle banche. Il Biancia visse a Sant’Anna di Rapallo in una sorta di esilio volontario, bevendo come una bestia e uscendo di tanto in tanto, come quella volta che, di ritorno da un viaggio in Palestina, girava per Rapallo con la benda sull’occhio, come Moshe Dayan, per perculare gli israeliani. Oggi lo dasperebbero.
Luciano Bianciardi
Nella nostra provincia si poteva ricominciare tutto daccapo, e in Italia, in quanto a cultura (ma anche per il resto) c’era proprio un gran bisogno di ricominciare tutto daccapo.
Luciano Bianciardi, “Il lavoro culturale”, 1957
Non so quale casa Bianciardi acquistò a Sant’Anna Di Rapallo, sul web non ho saputo trovarne traccia; nelle ricerche fatte ho scoperto però che a Rapallo passarono e si fermarono anche Anna Maria Ortese – che ha una targa a lei dedicata – Herman Hesse, Ezra Pound e William B. Yeats. E Ernest Hemingway, che usò la località balneare ligure come ambientazione per il racconto “Gatto sotto la pioggia”. Un’immagine abbastanza calzante – credo – per descrivere il Biancia degli ultimi anni: molto solo, sotto uno scroscio continuo d’alcol.
Ai pittori piaceva come crescevano le palme, e i vivaci colori degli alberghi affacciati sul giardino pubblico e sul mare. Gli italiani venivano da lontano a vedere il monumento ai caduti, che era di bronzo e luccicava sotto la pioggia.
Ernest Hemingaway, “Gatto sotto la pioggia” | “I quarantonove racconti”, 1938
(Se il 2019 può essere l’anno del ritorno dei blog, bisogna cominciare a linkarli e condividerli questi blog; nei social ci sono i like e le condivisioni, sui blog il caro vecchio href funziona ancora abbastanza bene)
Come fa il blog a rivivere ai tempi del capitalismo delle piattaforme? Riuscirà a svicolare dall’ansietà da breaking news dei social e a riprendersi una velocità più lenta? Troverà nuovi e più proficui modi di interazione? Influirà sulla bontà e l’efficacia dei contenuti?
“Per cambiare un ordine immaginario esistente, dobbiamo prima credere in un ordine immaginario alternativo.”
– Yuval Noah Harari, “Sapiens”, 2011.
Black Mirror: Bandersnatch – scritto da Charlie Brooker
Guardando Bandersnatch si mischiano le ossessioni di Philip K. Dick, il software Branch Manager di Netflix, le distopie di Black Mirror.
“Se l’agghiacciante grido dell’androide che si scopre tale è una semplice modalità del programma, una reazione prestabilita in risposta a un determinato stimolo verbale, prodotta dalla diligente attivazione di un certo numero di bit – descrizione che si applica interamente anche al funzionamento del cervello umano, sebbene questo sia fatto di cellule organiche e non di componenti di metallo o di plastica -, cos’è che cambia fra i due?
a) Tutto b) Niente c) Qualcosa, ma non sappiamo cosa. Indicate la vostra scelta barrando la casella corrispondente.
Emmanuel Carrère, “Io sono vivo, voi siete morti”, 2016.
Utilissima, prima o dopo la visione, la lettura del capitolo nove “Dopo l’inizio, la fine” in “Io non sono qui” di Fabio Chiusi: sulla fantascienza, l’uso politico dell’immaginazione – la resistenza speculativa propugnata da Malka Older – e la concreta realtà della distopia.
Cinque anni fa con gli Affluente si citavano Baudrillard e il sogno della merce: “Voi siete lo schermo e la tele vi guarda. Salta il senso del messaggio.”
Da Thomas Müntzer alla Comune di Parigi, dalla rivolta spartachista al movimento del’ 77: verso le altre stelle, perché «non si può fare il socialismo in un solo pianeta».
Quella che segue è una mia traduzione, sapientemente rivista e editata da Stenelo di ealcinemavaccitu, di un post in francese di Rim Ben Fraj – giornalista e traduttrice tunisina – pubblicato il 28 novembre scorso su Nawaat. È una lettera al presidente della Repubblica della Tunisia dopo che il Consiglio dei ministri, da lui presieduto, ha approvato pochi giorni fa una proposta di legge sull’uguaglianza di genere nel diritto ereditario. La ripubblico qui, alle stesse condizioni della licenza originaria, perché è un esempio di contestazione da sinistra del disegno di legge in questione, agli antipodi delle posizioni e degli scopi dei tradizionalisti e dei religiosi che continuano a sostenere che alle donne spetta la metà dell’eredità rispetto all’erede maschio. Pur a favore dell’allargamento dei diritti, questa lettera pone una fondamentale questione di priorità e di concreti interessi di classe. Perché la metà di zero rimane sempre zero quando hai poco da mettere nello stomaco.
Spiacente, signor Presidente, ma non condivido l’entusiasmo suscitato dal disegno di legge sulla parità di genere nel diritto ereditario. Lavoro tanto, ma senza alcuno stipendio, senza protezione sociale, senza assicurazione sanitaria, e non verso contributi pensionistici.
“Portraits de jeunes manifestants” – Foto di Amine Ghrabi – CC BY-NC 2.0
Con questo ritmo, non so neppure se arriverò viva alla fine dell’anno. In ogni caso, se mai arrivassi all’età della pensione, sarò probabilmente costretta a vendere crêpes o a frugare nell’immondizia per non morire di fame. Poiché né io né le mie sorelle avremo figli, dopo di noi non ci sarà nessuno. Comunque, i nostri eventuali figli, quale che fosse il loro genere, non avrebbero assolutamente nulla da ereditare da noi, così come noi non abbiamo nulla da ereditare dai nostri genitori. Allora, una domanda: di cosa saranno mai eredi in parti uguali le donne tunisine? Siamo centinaia di migliaia a doverci porre questa domanda.
Noi che siamo state brave ragazze, che abbiamo studiato, accumulato esperienze professionali, inviato il nostro curriculum vitae in tutte le lingue in giro per il mondo. Noi che abbiamo visto stroncare sul nascere la maggior parte dei nostri progetti dalla vostra burocrazia. Tutto ciò ci dà buone ragioni per andarcene, per fuggire lontano da questo Paese, per non volere figli e dover lasciar loro – in parti uguali! – tutta questa miseria. Sfortunatamente, i muri sono invalicabili: niente salario, niente protezione sociale, niente visto Schengen. D’altronde, quando vediamo i brutti ceffi al potere in tutta l’area Schengen, ci passa la voglia di andare a bere una birra a Berlino o un bicchiere di vino a Barcellona.
La tanto vantata proposta di legge sulla parità tra uomo e donna nel diritto ereditario ha sollevato un baccano mondiale che impedisce di udire le grida dei disperati di una Tunisia ridotta al silenzio, lontana dal triangolo [per soli ricchi – NdT] Cartagine – La Marsa – Il Bardo. Lei non è stato capace di affrontare neppure uno dei veri problemi che affliggono la nostra società ed ecco che ora se ne viene fuori con questo disegno di legge mediatico per accaparrarsi le lodi ipocrite dei suoi capi a Bruxelles, Washington e Berlino: « Toh, ecco degli arabi buoni!” Visto dal basso, a noi arabi questo spettacolo non importa un fico secco. In hijab o in minigonna siamo tutte nella stessa merda.
“Portraits de jeunes manifestants” – Foto di Amine Ghrabi – CC BY-NC 2.0
Siamo stufe: stufe dei call center che ci pagano una miseria per farci molestare sei giorni su sette, stufe delle fabbriche dove il capo tedesco ci offre generosamente un litro di olio di mais in occasione dell’Eid [la festività religiosa che segna la fine del Ramadan – NdT] come premio per le nostre competenze e l’agilità delle nostre piccole dita, pagate dieci volte meno che nel suo paese. Stufe di associazioni farlocche lautamente finanziate per consentire ai loro direttori esecutivi di offrire giri di birra e comprare borsette Michael Kors alle loro ragazze. Stufe di vedere su Facebook le foto di queste furbette che si fanno finanziare una vacanza studio a Disneyworld da una fondazione di Washington (e la chiamano “youth leadership” e “women empowerment”).
Signor Presidente, ci dividono 57 anni luce. Mi sa che lei e io non abitiamo sullo stesso pianeta. Il suo crede di star bene, il nostro sa di star male. Le sole cose che erediterà il mio pianeta saranno il suo debito, quello dei suoi predecessori e il suo fallimento. Per concludere, qualche suggerimento: vuole davvero far piacere alle donne di questo paese? Allora cominci col dar loro i mezzi per comprare vero caffè, vero formaggio, vera cioccolata, così che possano riempirsi lo stomaco con quel cibo che la maggior parte di esse non può più permettersi. Per il resto si vedrà.