Gli sfollati

Pisa dopo il bombardamento del 31 Agosto 1943

La mi’ nonna Rosa era del sette. Del millenovecentosette.
Nella campagna della provincia pisana che già occhieggia la parlata fiorentina ha vissuto due guerre mondiali: la prima da bambina, la seconda da adulta, già madre di tre figli.
Quando le chiedevo della seconda guerra mondiale, nonna Rosa non diceva mai la guerra, ma il passaggio della guerra, un’espressione che mi affascinava e allo stesso tempo mi inquietava perché immaginavo la guerra come un’ombra enorme, tipo quella di un grosso rapace o di un cielo nero di cavallette, capace di spostarsi autonomamente e con un grado di imprevedibilità molto alto.

Malgrado la tinta fosca con cui li ricoloravo nella mia fantasia, i suoi racconti del millenovecentoquarantatrè e quarantaquattro erano semplici e umani.
Nonostante sgorgassero da ricordi di vicende accadute quarant’anni prima, erano rimasti vividi, la radice ben piantata nella memoria. A poco meno di quaranta anni, una situazione enormemente pericolosa le era arrivata proprio sotto la soglia di casa, in quel pezzo di Toscana dove viveva, e dove ora figli, parenti e amici rischiavano di morire, di essere catturati o – come minimo – di rimanere brutalizzati da tutto quello che stava accadendo intorno.
Parliamo di cannonate, tetti sfondati e bestie scappate, duelli aerei, soldati per le strade e nei boschi, ordini secchi in lingue mai sentite, corse in cantina, fascisti e partigiani che si sparavano ai crocicchi di campagna, piloti della RAF abbattuti e nascosti nei fienili. Parliamo di coprifuoco, rappresaglie, requisizioni forzate, rifugi scavati nel tufo, puzzo di piscio e urla di bimbetti, morti di malattie e gorgoglii di fame.

E gli sfollati.

Con il passaggio della guerra, mia nonna aveva fatto conoscenza con la parola sfollati: aveva incontrato e aiutato persone che, con la morte nel cuore e poco nello stomaco, avevano deciso di lasciare la loro casa a Pisa o nei paesi vicini, e con quel che potevano permettersi di portarsi dietro, erano fuggite nelle periferie e nelle campagne, sperando, prima di tutto, di salvare la vita. Persone fragili, provate ma ancora vive, che scappavano e cercavano un riparo: donne, bimbi e vecchi, per lo più. Qualcuno più istruito, qualcuno analfabeta, tutti in estremo pericolo, come lei.
Anzi, gli sfollati erano messi anche peggio di lei perché avevano perso, e non si sa per quanto, gli appigli e i facili approdi garantiti dai gesti semplici della vita quotidiana: dove sta la bottiglia dell’acqua, le finestre delle camere da aprire, la melassa del pomeriggio estivo sulla sedia di fronte all’uscio, cercando uno spicchio di bacìo o un po’ di riscontro. Tutte situazioni e tempi apparentemente insignificanti, ma capaci di addomesticare e smussare l’aguzza imprevedibilità del domani. Tutto sparito – gesti, oggetti, abitudini – con il passaggio della guerra.

La cosa che accomunava di più mia nonna e gli sfollati non era l’essere italiani, toscani, pisani, della Valdera o del Valdarno, ma l’essere in balìa di un evento enorme, covato in anni in cui i miei nonni e tanti altri non erano stati in grado – non avevano voluto o non gli era stato permesso – di immaginare una disgrazia come quella.
Il fascismo le aveva portato la guerra in casa, e con lei erano arrivati anche la miseria e la paura. Bloccata in quelle situazione, per mia nonna non contava più se venivi da Pontedera o da Montefoscoli, da Berlino o dal Kentucky, l’importante era salvare la pelle, capire da che parte arrivava la pace e provare a arrivarci il prima possibile. Lì o altrove.

C’era un’altra cosa che la accomunava agli sfollati: entrambi possedevano poche cose, e nonostante fossero poche, erano totalmente a rischio di scomparire, sia per effetto delle cannonate dell’artiglieria americana che arrivavano dalle alture vicino Colleoli, sia di quelle della contraerea tedesca a pochi chilometri di distanza. Non potevano permettersi altro lusso che rimanere vivi, sfollati e non sfollati.
Credo sia per questi motivi che quando rammentava gli sfollati mia nonna ha sempre usato parole gentili e accoglienti: erano povera gente che arrivava nei suoi posti – poveri anche quelli – perché spinta da qualcosa di enorme, di inaffrontabile. Qualcosa da evitare, fossero le bombe in testa o i rastrellamenti casa per casa da parte di divise scure, coi teschi ricamati, che, retrocedendo verso la linea Gotica, bruciavano paesi e poderi. Adesso anche lei sapeva che non le piacevano, facevano del male alla terra e alle persone, un veleno che guastava i campi e accoppava raccolti, alberi e animali. Milioni di morti in Europa e nel mondo, anche lì da lei: faccia a faccia con la distruzione, con tre figli piccoli – mia zia di pochi mesi – e mio nonno portato via con i lavori forzati della Todt.

Nonna Rosa è morta nel 2001, nell’estate del G8 di Genova, negli anni zero di un secolo nato sulle macerie, Internet e i gas.
Gli sfollati – di allora e di adesso – credo provengano ancora dalla stessa parte: quella dei poveri, ossia quelli che muoiono quando i ricchi decidono di fare la guerra. Con le bombe o con la fame.

E oggi che siamo sfollati dentro le nostre case, a queste cose forse sarebbe da pensarci di più e meglio.

Cose che si imparano dai film – e serie

Mai comprare una macchinona costosa se la paghi con soldi sporchi.

Se volete, potete indovinare da quali film e serie è sono tratti i tre fotogrammi.
Il premio per chi vince oscilla ancora tra il classico mappamondo e la mia password di Netflix per una settimana.
E valgono solo i commenti lasciati qui, non sui social.

Fotogramma 1
Fotogramma 2
Fotogramma 3

Come le formiche

I tempi sono quelli che sono, e fosse stato vivo Philip Dick ce lo saremmo ritrovati su qualche social o blog a descrivere o trasfigurare questa distopia in corso.
Io e MineVale lo abbiamo ricordato così, attraverso le immagini registrate sul muretto sotto casa, con le parole e le sottolineature de “Il cacciatore di androidi” e grazie alla musica di di Martijn de Boer (NiGiD) pubblicata sotto creative commons su CCmixter.
Se potete usate le cuffie e un volume medio: dura un minuto, buona visione.

Magnifiche minuzzarie

Ogni qualsivoglia vilissima minuzzaria in ordine del tutto ed universo è importantissima; perché le cose grandi son composte de le picciole, e le picciole de le piccolissime, e queste de gl’individui e minimi.

– Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, Dialogo primo, 1584.

È una foto di Martina Dienstleder fatta con il microscopio elettronico nel 2011 e tutte le volte che la guardo mi perdo nella circolare infinità che lega l’immenso e il piccolissimo.

Sembra un canyon ma è una piccola crepa in un pezzo di acciaio.

Il lavorìo che viene

Ma non è lavoro, questo, è un senso di colpa, un opportunismo cinico, una manipolazione continua, deprivazione del sonno, bipolarismo, tensione, antilingua, rapporti poco chiari, poco onesti, torbidi, l’editoria, la provincia, le pacche sulla spalla, la maschera della morte rossa, la nube purpurea, gli ultracorpi, il Weneto…

– ale, “Se volete, parliamo del lavoro”

E questa cosa che ale di brekane pubblica due post nell’ultima settimana lo si prende come un ulteriore segnale che un altro flusso potrebbe presto formarsi.
Qui ci si lavora zitti zitti.

Eppure qualcosa cigola

Era quasi esattamente un anno fa: si riparlava del ritorno al blog, della scrittura più lenta, della soffice dittatura dei social e della possibilità di uscirne.
Il Many aveva sapientemente parlato di “New Wave italiana” e in effetti diversi blog erano rifioriti, ma il 2019 non è stato l’anno del blogroll.

Eppure qualcosa cigola.

Sono ancora mezzi rumori, allentamenti e rallentamenti della materia di cui è fatto il flusso di informazioni che sciaborda ogni giorno sotto le nostre cornee. Sono analisi, propositi e scelte che invitano a sottrarsi al ritmo finto indiavolato delle piattaforme, alla loro capacità e rapacità estrattiva.
Sono argomenti pubblicati su siti, blog e newsletter che mi ha fatto bene leggere e che qui sotto, come fosse un vecchio Blob of the blogs, vi lascio in un montaggio più o meno ragionato.

Perché cercate di convincermi che il digitale è veloce e la fisicità lenta? Puoi prendere appunti lenti su carta mentre qualcuno parla veloce? Non è solo un fastidio mio: quello che mi preoccupa è che, imponendo una dicotomia, allontaniamo l’equilibrio. Non sarebbe meglio praticare la lentezza nel digitale invece di rafforzare l’equivoco materia lenta digitale veloce? Se tante persone sono stressate per la velocità digitale è meglio suggerire e mostrare che si può rallentare anche online, non arrendersi e considerarlo un effetto collaterale dell’ambiente. Non lo è. Siamo sempre noi che scegliamo (o ci facciamo condizionare).

– Mafe De Baggis, “[Koselig #37] Festina lente, hai presente?

Scriverò ancora di musica, ma non in quel modo lì e non con quella dedizione da ascoltatore bulimico.
Voglio rallentare tutto, calpestare altri lidi e dare il mio modesto contributo ad agitare le suddette acque.
Cosa ne verrà fuori in concreto lo vedremo insieme poi. Qua sopra e solo qua sopra: non ci sarà nessuna pagina facebook, instagram o account twitter, perché è ora (è ora da tempo) di abbandonare i monopolisti e riprenderci gli strumenti che usiamo per comunicare e agire nel mondo.

– leo durruti, “Acque agitate | Chi sono”

Il nostro sito è questo, è Giap. Abbiamo necessità e voglia di ripartire da qui, di avviare una nuova fase di discussioni sul blog, magari a cominciare proprio dallo spazio qui sotto. È un invito a lasciare i vostri commenti, senza remore. Dopo aver letto tutto, s’intende. E lentamente.
[…]
Chi ha un blog e in questi anni lo ha negletto, torni a scriverci sopra e a promuoverlo, lo rivitalizzi e ne faccia l’epicentro della sua comunicazione quando ha qualcosa da dire. I social, soltanto come rimbalzo. Per le situazioni militanti, come scritto nella prima puntata, questa è una necessità vitale, ma in fondo lo è anche per il singolo individuo. Non è più tempo di essere ex-blogger.

– Wu Ming, “L’amore è fortissimo, il corpo no. 2009 – 2019, dieci anni di esplorazioni tra Giap e Twitter / 2a puntata (di 2)”

Sono d’accordo. E non solo perché ho scelto, con ostinazione, di tenere in piedi il sito su cui state leggendo anche nel periodo in cui i blog, personali e collettivi, erano in ritirata (grosso modo dal 2014 fino a oggi). Anche perché, complici proprio la lettura e l’approfondimento del metodo e della scrittura di Fisher, mi è tornata la voglia di curare uno spazio che accolga i miei pensieri al di fuori dal recinto dei social network, commerciali e non.

– Flavio Pintarelli, “2020, ritorno alla blogosfera”

E anche da queste parti c’è un lavorìo sotterraneo che ancora non si vede, come il rumore di un ingranaggio che muta per qualcosa che cigola.

Billy Bragg - Back to Basics