Erskine Cladwell firma alcune copie delle prime edizioni de "La via del tabacco"

Erskine Caldwell, figlio di un predicatore

Quando esce “La via del tabacco” Erskine Caldwell ha trent’anni, pochissimi soldi in tasca e due figli piccoli. Vive, insieme alla moglie, nella casa delle vacanze dei suoceri a Mount Vernon, nel Maine. Coltiva patate e rape, taglia la legna, e appena può, ingolfato di maglioni per sconfiggere il freddo dell’abitazione senza riscaldamento, si mette a scrivere.
È arrivato lassù dopo aver vissuto in svariate città degli Stati Uniti, cambiando molti lavori e non abbandonando mai l’idea di vivere della propria scrittura.

Dalla Georgia – dove era nato nel 1902, lui dice nel 1903 – si era trasferito prima a Philadelphia, dove si era iscritto senza laurearsi alla University of Pennsylvania e poi, sempre in Pennsylvania, a Wilkes-Barre dove aveva tentato la carriera di giocatore di football professionista. Quindi si era spostato a Atlanta dove aveva fatto il reporter per l’Atlanta Journal, lo stesso giornale in cui lavorava Margaret Mitchell, la futura autrice di “Via col vento”. Oltre agli articoli per il giornale, Caldwell arrotondava le entrate scrivendo recensioni.
Quando era nato il primo figlio si era trasferito a Charlettosville, in Virginia, dai genitori della prima moglie, Helen Lannegan, donna colta e emancipata che aveva sposato a Washington nel 1925, di nascosto dalle famiglie di entrambi.
Con l’arrivo del secondo figlio, Erskine e Helen avevano traslocato nella casa estiva dei suoceri, detta Greentrees, nel gelo invernale del Maine. Qui per sopravvivere Caldwell aveva continuato a scrivere brevi racconti e recensioni e, con le copie gratuite dei libri da recensire che riceveva dalle case editrici, aveva aperto una libreria a Portland, gestita da Helen.

A Mount Vernon la famiglia Caldwell sarebbe rimasta sette anni durante i quali lo scrittore, soffrendo fame e freddo, avrebbe visto pubblicati i primi racconti e i suoi primi due romanzi: nel 1929, per i tipi di una piccola casa editrice, la Heron Press di New York, era uscito “Il bastardo” – da poco ripubblicato in Italia da De Piante – le cui copie venivano subito sequestrate dalle autorità del Maine e bandito in altri stati. L’anno seguente era uscito “Un povero scemo” per Rariora Press – per trovare l’ultima edizione in italiano bisogna risalire a quella di SugarCo nel 1959.
I protagonisti di questi primi romanzi sono Gene Morgan, uno sbandato dal grilletto facile, figlio abbandonato di una prostituta con la quale finirà a letto e Blondy Niles, un pugile fallito alle prese con un allucinante mondo notturno fatto di pazzi, puttane, necrofilia e malviventi.
Violenza, colpi di scena, sesso e disagio: siamo già nel pulp, ma ci torneremo un’altra volta, in un altro post.


Un consiglio di Maxwell Perkins

Siamo nel 1931 quando, grazie a un anticipo di trecento dollari avuto dalla prestigiosa casa editrice Scribner’s, viene pubblicato “American Earth” – mai tradotto in Italia – una raccolta di racconti in cui Caldwell descrive le durissime condizioni dei lavoratori degli stati meridionali degli Stati Uniti e del Maine così come i linciaggi subìti dalla popolazione nera. Sono racconti nuovi e in parte già pubblicati su piccole riviste letterarie, curati e pubblicati grazie al leggendario editor della Scribner’s Maxwell Perkins – per chi non lo conoscesse, uno che ha scoperto e lanciato le opere prime di Fitzgerald e Hemingway, per dirne solo due.
È stato Perkins il primo a pubblicargli sulla selettiva “Scribner’s Magazine”, e a pagargli cospicuamente, due racconti, dopo che Caldwell gliene aveva spediti più di cento, tutti rifiutati.
“American Earth” riceve una buona accoglienza dalla critica e è ancora Maxwell Perkins a consigliare a Caldwell di scrivere un libro sul Sud rurale, un ambiente che conosceva bene fin da quando era un bambino.

Perché suo padre, Ira Sylvester Caldwell, era un predicatore della Chiesa presbiteriana riformata che si spostava di parrocchia in parrocchia, visitando le famiglie delle campagne sabbiose delle Sandhills. Contadini che sopravvivevano coltivando tabacco e cotone. Lui e la moglie – Caroline Preston Bell, insegnante di latino e inglese che mal sopportava quell’ambiente chiuso e isolato tanto da non mandare il figlio a scuola e facendogli lezione lei stessa – dopo molti trasferimenti negli stati del Sud, alla fine si erano trasferiti nella contea di Jefferson.
Nei suoi viaggi nelle fattorie tra Keysville e Wrens – dove la famiglia Caldwell si era stabilita – il giovanissimo Erskine accompagnava suo padre, vedendo con i suoi occhi le tremende condizioni in cui vivevano i piccoli agricoltori, bianchi e neri, della Georgia orientale.

Ira Sylvester Caldwell, predicatore e sociologo dilettante

Le visite pastorali di Ira non assomigliavano a quelle di molti altri predicatori che percorrevano gli stati meridionali degli Stati Uniti in quegli anni, ingannando e travolgendo chi li ascoltava con una marea di menzogne e tirate fondamentaliste nell’unico tentativo di far sopportare a quei fisici infiacchiti dalla fatica e a quelle menti stremate dalla disperazione il loro stato miserabile. I viaggi di Ira Sylvester Caldwell, oltre a aiutare concretamente le famiglie di agricoltori più indigenti – al costo di sottrarle al sostentamento della propria famiglia non certo ricca – miravano a ricordare ai mezzadri, e indirettamente a Erskine, che la loro condizione morale dipendeva dalle condizioni economiche in cui versavano. Il reverendo Ira sapeva che la crudeltà in cui erano immerse le comunità che incontrava non erano la conseguenza di piani diabolici, ma di condizioni concrete e materiali prodotte dal sistema economico; nei suoi discorsi non aveva mai bisogno di evocare il diavolo e le sue malvagie intenzioni, cosa che invece fa puntalmente Bessie Rice, la predicatrice che ne “La via del tabacco” rende chiare come le sue convinzioni siano diametralmente opposte a quelle del padre di Caldwell.
Così parla sorella Bessie:

“I buoni predicatori non predicano su Dio e il cielo e su altre cose del genere, predicano sempre contro qualche cosa, come l’inferno e il diavolo. Queste sono le cose contro cui si deve predicare. Un predicatore non guadagnerebbe niente a predicare su Dio; deve predicare invece contro il diavolo e contro tutte le cose peccaminose e cattive. È questo che la gente vuol sentire. La gente vuole sentire parlare delle cose cattive.”

Le storie e l’ambiente che il giovane Erskine incontra accompagnando il padre segneranno per sempre la sua mente: le privazioni e gli stenti di quelle famiglie numerosissime la cui prole vestita di stracci non andava a scuola così come la violenza e l’abbrutimento morale che regnavano in quelle baracche di legno, senza luce e acqua corrente, si imprimono nei suoi ricordi e costituiranno il materiale principale delle sue opere migliori. Quella del predicatore sarà una figura che ritornerà sovente nelle sue opere, proprio a partire da “La via del tabacco” che Scribner’s gli pubblicherà nel 1932, senza cambiare nulla – parola di un gigante dell’editing come Perkins – rispetto all’originale.

Caldwell segue il consiglio di Perkins, ritorna Wrens in Georgia e come gli accadeva da piccolo, accompagna di nuovo il padre nelle fattorie che costeggiano le “vie del tabacco”, le strade di sabbia create dal rotolamento delle botti – “recipienti enormi in cui le foglie di tabacco venivano imballate dopo esser state conciate e stagionate nelle capanne d’argilla” – che andavano dalle piantagioni fino alle rive del fiume Savannah dove venivano imbarcate e portate via per la lavorazione.
La sua descrizione di questi dannati della terra – per usare un’espressione che Frantz Fanon userà trenta anni dopo per indicare altri diseredati – è cruda e senza sconti: non c’è alcuna santificazione o nobilitazione delle loro sofferenze. Non c’è la dignità e i gesti di altruismo che John Steinbeck descriveva nella grande migrazione della famiglia Joad in “Furore” né tanto meno il ritratto del Sud aristocratico e gentile che renderà popolare “Via col vento” della già citata Margaret Mitchell.

La Grande Depressione in Georgia

I personaggi de “La via del tabacco” annaspano nella pigrizia e nell’egoismo, sono preda di una promiscuità, mischiata a una foia sessuale e a un utilitarismo meschino che non esclude incesti e matrimoni di figlie dodicenni per raggranellare qualcosa da mettere sotto i denti.
Anche se il suo crudo affresco ha la forza di una potente opera di denuncia sociale e la sua indignazione di fronte all’estrema povertà è sincera, la sua penna registra impietosamente lo stato di degradazione dei suoi personaggi, fino a renderli grotteschi e ridicoli nelle loro continue false partenze o nei loro stolidi fallimenti in una situazione di enorme impoverimento generale.
Sono gli anni della Grande Depressione, anni in cui le famiglie povere del Sud affrontano carestie e avversità che le lasciano letteralmente morire di fame. La Georgia, in particolare, al momento del famigerato Martedi nero (29 Ottobre 1929) sta già soffrendo un periodo di crisi economica in atto da una decina di anni: prima la diffusione del punteruolo del cotone, un insetto che rovinò molti raccolti, poi il calo dei prezzi del cotone, dovuto alla sovrapproduzione alla concorrenza estera e infine un periodo di siccità che durò tre anni, accoppiato a un sistema di irrigazione dei campi insufficiente e antiquato. Tecniche obsolete e uno sfruttamento intensivo dei terreni per aumentare la produzione di cotone da vendere portarono infine a una vera e propria erosione e desertificazione dei terreni. Così, già prima degli anni Trenta, erano stati in molti, specialmente nella popolazione nera, già vessata da salari più bassi e da angherie razziali, a lasciare le proprie terre per andare a lavorare nelle industrie tessili delle città o per emigrare più Nord. Molti altri persero le loro proprietà divenendo mezzadri e subendo le condizioni imposte dei grandi proprietari terrieri. La maggioranza di costoro erano bianchi poveri che vivevano con un reddito annuo al di sotto di 200 dollari. Quando poi le banche fallirono, la possibilità di credito per i piccoli agricoltori si ridusse a zero e mentre la maggior parte dei grandi proprietari riuscì a superare gli anni di depressione economica, per la maggior parte della popolazione che viveva di agricoltura fu una vera e propria catastrofe.
A questo sottoproletariato agricolo bianco, o forse ancora più in basso, ormai impossibilitato a accedere a un minimo di credito per comprare sementi e concime per coltivare la terra, scheletrito dalla fame e indebolito dalla pellagra, appartiene Jeeter Lester, il patriarca protagonista de “La via del tabacco”.

Verso la fama e la ricchezza

L’ambiente e i personaggi del romanzo piacquero a buona parte della critica, anche a quella impegnata, ma fecero infuriare i politici degli stati del Sud e molti abitanti delle contee dove il romanzo era ambientato. Nonostante i molti tentativi di censura, dal romanzo fu tratta un’opera teatrale che rimase in cartellone a Broadway per più di sette anni e nel 1941 un regista del calibro di John Ford ci fece un film sopra, anche se molto edulcorato rispetto all’originale su carta.
Se ancora nel 1934, a due anni dall’uscita del libro, Caldwell riusciva a stento a guadagnare sui quindici dollari alla settimana, pochi mesi più tardi era ricco e dagli anni quaranta in poi divenne uno degli scrittori più venduti al mondo.
Per spiegare meglio tutto questo bisognerà parlare dei paperback – le versioni tascabili – di letteratura pulp e di come l’Augusta Chronicle, il giornale più vecchio di tutti gli stati del Sud, operò una vera e propria opera di fact-checking sugli scritti di Caldwell.
Però nel prossimo post, ché qui siamo già andati lunghi.


P.S.: il titolo del post riprende volutamente il titolo della famosa canzone uscita nel 1969 “Son of a Preacher Man”, riportata in auge nel 1994 da Quentin Tarantino che la volle nella colonna sonora di “Pulp Fiction”. Pulp, e siamo a tre.

(Immagine via Library of Congress | “Erskine Caldwell firma alcune copie di “Tobacco Road”” | 1936)

Michael Kerbow - Glade - Late Capitalism

Antichi sentieri: Lit/Ring

Qualche anno fa Yancey Strickler – uno dei co-fondatori di Kickstarter – descrisse, prima in una e-mail inviata a 500 persone e poi sul proprio blog, quella che chiamò la teoria della foresta oscura di Internet .
Partendo dal romanzo di fantascienza di Liu Cixin, “Il problema dei tre corpi”, Strickley analizzò lo stato del Web nel 2019 per spiegare alcune sue decisioni e condividere e i suoi dubbi. Ne traduco al volo qualche paragrafo:

Immaginati una foresta di notte. Nulla si muove, niente si agita. Questo potrebbe indurre a pensare che la foresta sia vuota, senza tracce di vita. Ma, ovviamente, non è così. La foresta pullula di vita. È silenziosa perché è notte, il tempo in cui escono i predatori. Per sopravvivere gli animali rimangono in silenzio.
Il nostro universo è una foresta vuota o oscura? Se è una foresta oscura allora solo la Terra è abbastanza stupida da inviare messaggi verso il cielo per annunciare la propria presenza. Il resto dell’universo conosce già il vero motivo per il quale la foresta rimane oscura. È solo una questione di tempo prima che anche il nostro pianeta lo comprenda.
Questo è anche ciò che Internet sta diventando: una foresta oscura.
Come risposta alla pubblicità, al tracciamento, al trolling e a altri comportamenti predatori ci stiamo ritirando nelle nostre foreste oscure, lontano dal mainstream.
[…]
L’Internet di oggi è un campo di battaglia. L’idealismo degli anni ’90 è svanito. L’utopia del Web 2.0 – quella in cui vivevamo nelle nostre bolle smussate e felici – è terminata con le elezioni presidenziali del 2016 quando abbiamo compreso che gli strumenti che consideravamo vitali potevano essere usati come armi. Gli spazi pubblici e semi-pubblici che avevamo costruito per sviluppare le nostre identità e comunità, e acquisire conoscenze, sono stati sorpassati da forze interessate a usarli per ottenere potere di vario tipo (di mercato, politico, sociale etc.)
Questa è l’attuale atmosfera del Web mainstream: un’incessante competizione per il potere. Mentre questa aumenta sia di dimensione sia in ferocia, un numero sempre maggiore di persone ha trovato rifugio nelle proprie foreste oscure, lontano dalla mischia.

La sua decisione, per non cadere vittima dei predatori notturni, fu drastica: abbandonare tutti i social network, rimuovendo anche le app dallo smartphone e escludendosi totalmente dal magmatico flusso di conversazioni. Smise anche di guardare la televisione e si ritirò nelle foreste oscure: le e-mail, i podcast e le newsletter; ambienti, secondo Strickler, in cui sentirsi più al sicuro, dove si può esporre con molto meno timore il vero sé. Altre persone seguirono lo stesso metodo, come una generazione di moderni aspiranti monaci.
Dopo un po’ di tempo, seppur realizzando come il suo benessere personale fosse molto migliorato, Strickler iniziò a avere dubbi sulla propria scelta. Coniò una seconda teoria – la teoria della pista da bowling di Internet – secondo la quale le persone stanno sulla Rete semplicemente per incontrarsi e, a lungo andare, i luoghi dove si incontrano non sono più importanti perché sono le interazioni che si sviluppano a essere la motivazione principale della propria presenza. L’analogia con il bowling è basata sul fatto che non tutte le persone che vanno a tirare giù birilli, mettendo a repentaglio il proprio metcarpo, lo fanno perché gli piace, ma perché è un modo per stare con altre persone.
Un altro dubbio che Strickler mise nero su bianco è che, se una parte consistente di popolazione online avesse abbandonato le piattaforme, ciò avrebbe lasciato comunque una vasta platea influenzabile da coloro che sarebbero rimasti, limitando anche la capacità di interazione e influenza di chi aveva deciso di lasciarle.
La frase che conclude il post è questa:

Se la foresta oscura non è già un luogo pericoloso, questi abbandoni potrebbero fare in modo che lo diventi davvero.

Sono passati più di cinque anni da quel post e la teoria della foresta oscura ha suscitato riflessioni, approfondimenti e critiche, diventando anche un libro di carta. I social network nel frattempo si sono smerdati molto e i passaggi proprietari e i cambi di policy degli ultimi mesi hanno sicuramente peggiorato la situazione. I dubbi di Strickler appaiono, almeno per me, ancora validi, ma hanno perso molto della loro valenza proprio per la situazione in cui versano le principali piattaforme social: se il significato e il tono delle piattaforme cambiano a seconda di chi le usa e che genere di bowlingviene fuori dipende da chi ci va, siamo al punto in cui la pista è volutamente preparata per giocatori a cui interessa più sopraffare totalmente gli avversari che non fare due chiacchiere o raccontarsi storie aspettando il proprio turno. Con gran soddisfazione dei proprietari del bowling che se la ridono dall’alto.

Ora: se siete arrivati/e a leggere fino a qui, oltre a ringraziarvi di cuore, è giunto il momento di svelare il motivo principale per cui ho voluto spendere tutte queste parole: credo che tra i luoghi protetti dai predatori della foresta oscura ci siano anche i siti web personali e i blog. Lo ha creduto anche Maggie Appleton che, in un’ottima rappresentazione grafica del Web, ha messo i feed rss allo stesso livello di newsletter e e-mail. Blog e siti web fanno parte di quel sottobosco, humus vivo e pulsante, ma poco visibile e poco collegato. Per questo ho pensato che ci sarebbe stato bisogno di sentieri, piccoli viottoli anche sotterranei, o vie del tabacco sabbiose e strette, che unissero queste realtà senza per forza passare dalle piattaforme che, appollaiate sui rami più alti, osservano e estraggono dati da chi si avventura dalla loro parti.

Per questo motivo è nato Lit/Ring, un webring dedicato ai libri e alla letteratura, un modo antico di collegare tra loro autori e autrici che sui propri siti e blog scrivono recensioni, pubblicano le loro opere o approfondiscono e portano avanti discussioni sulla scrittura, la lettura e la letteratura in generale. Non è di sicuro la killer application che rivoluziona il gioco, non ha la pretesa di sostituire le piattaforme: è solo un modo diverso di esplorare i contenuti della Rete, affidandosi non più a un algoritmo bensì a a un tocco umano, capace anche di sbagliare, ma anche di collegare mosso da motivazioni diverse dal dover fare numeri, accumulare like o sentirsi il signore o la signore del blastaggio. Leggetene meglio sul suo sito – o ring hub – quando avete tempo.
E provatelo: cliccando sulle frecce dei banner che trovate sui siti aderenti potete farvi un giro completo dell’anello composto dalle persone che finora hanno aderito e, se scrivete su un blog o o un sito vostro (anche) di libri e letteratura, contattateci se volete farne parte. È gratis e non vi serve a nient’altro che un po’ di tempo.
Forse così le foreste potrebbero essere meno oscure.

[piccola nota personale: quando ho letto la prima volta il post della teoria della foresta oscura mi sono ricordato che la stessa metafora l’avevo usata quattro anni prima per un seminario sulla selva dei social network. Era ancora un bosco e non ancora una foresta e le parti pericolose ancora non esistevano o erano piccole piante ancora a livello di sottobosco. O ero io che non volevo o sapevo vederle.]

(Immagine di copertina Michael Kerbow, collezione “Late capitalism | Glade”)

Éric Cantona in Lavoro a mano armata - serie tv

Con tanti saluti all’etica

Da ieri Donald Trump è il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti d’America. È stato rieletto nonostante sia stato condannato per abusi sessuali e diffamazione e nonostante non sia stato condannato – solo perché ha vinto le elezioni – per il suo ruolo nell’assalto a Capitol Hill del 6 Gennaio 2021. La sua vittoria, a novembre dell’anno scorso, ha dietro di sé una sfilza di nonostante lunga e triste che non gli ha impedito di ritornare alla Casa Bianca, ma che per alcuni aspetti l’ha addirittura aiutato.


A me Trump è risultato sempre insopportabile anche in tempi pre-politici: fin da “The Apprentice” e da quel “You’re fired!” (“Sei licenziato!”) circolato così tanto sulla Rete da aver creato generatori automatici di meme con la sua foto tratta dal reality show pronta per essere personalizzata in millemila varianti.
Non sono mai riuscito a sopportare come si potesse provare ammirazione o rimanere affascinati da uno che, anche solo per sceneggiatura, mostrava in maniera così esplicita l’arroganza e la prepotenza del padrone che, sotto la copertina leggera della meritocrazia, si libera come e quando vuole di chi non gli va a genio o interferisce in qualche modo con il piglio volitivo che gli imprenditori come lui si sentono in dovere di portare avanti sempre, basandosi sul loro istinto e sulla loro innata positività, anche quando la situazione prevederebbe analisi più accurate e una maggiore dose di razionalità.
Emblematica in questo senso la frase con cui ieri Trump ha iniziato il suo primo discorso inaugurale: “L’età dell’oro dell’America inizia adesso”. Sono parole che ricordano l’ottimismo ingenuo e gli spiriti animali di cui scriveva John Maynard Keynes nel 1936 quando, in “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, descriveva l’importanza di quell’insieme di emozioni istintive e del comportamento umorale che stanno alla base delle decisioni sia degli esseri umani sia degli imprenditori. Da ricordare che Keynes lo annoverava tra i fattori che portarono al crollo di Wall Street e alla Grande Depressione del 1929. Ma Trump parla di Golden Age.

Più pericoloso e viscido di Trump però in queste ultime settimane ho considerato chi, già prima dell’insediamento ufficiale, si è recato da lui per omaggiarne la figura, finanziarne le attività e perorare la propria causa, o meglio il proprio tornaconto. Sono i tech bros che delle regole e delle leggi provano a farsi beffe tutti i giorni, che cambiano le loro policy aziendali solo per fare sempre più profitti, che se ne sbattono altamente dell’interesse generale. Sono i padroni del vapore, uomini potentissimi e tra i più ricchi del mondo che non hanno nessuna remora a dimostrarsi servili o a servirsi del potere politico di turno al solo scopo di aumentare i loro già enormi patrimoni. Chiedono di intervenire – è il caso di Zuckerberg – su leggi e regolamenti che diminuirebbero i guadagni delle loro imprese o di non regolamentare settori come l’intelligenza artificiale e le criptovalute, dove “molti di loro hanno fatto investimenti personali e aziendali importanti”. Sono tra quelli che da anni stanno portando avanti la lotta di classe e stanno vincendo a mani basse – per citare Warren Buffett che, in un’intervista al New York Times nel 2006, disse chiaramente: “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”

Mi rircordavo, a questo proposito, di un libro che, per me, è stato illuminante: è uno degli ultimi libri di Luciano Gallino, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, uscito per Laterza nel 2012. È un’intervista, a cura di Paola Borgna, al sociologo che purtroppo sarebbe scomparso tre anni dopo.
Una delle domande che Borgna rivolge a Gallino è se oggi ritiene davvero possibile immaginare un’impresa che, invece di massimizzare il valore per gli azionisti, si adoperi per ottimizzare le condizioni di lavoro e di vita dei dipendenti.
Luciano Gallino risponde così:

“L’impresa fa in generale quello che il quadro legislativo e normativo le permette di fare, oppure la incentiva a fare. Intendiamoci: in non pochi casi si muove anche al di là, o al di sotto, del quadro legislativo-normativo, come dimostrano le vicende giudiziarie che hanno coinvolto grandi imprese, nel nostro paese come in altri. Si pensi, tra gli altri, ai recenti processi Thyssen e Eternit. Resta il fatto che, nell’insieme, pure le imprese che rispettano la legge e hanno di fronte un quadro legislativo che attiene al governo dell’impresa, ai diritti dei lavoratori, alla salute e alla sicurezza sui posti di lavoro, oppure all’ambiente, fanno sovente il possibile per sfruttare fino ai margini ultimi, e magari un poco oltre, quel quadro normativo. Tanto meglio, poi, se lo stesso quadro viene indebolito dal legislatore.
[…]
Il principio che tutto sovrasta, e che ha visto illustri economisti adoperarsi per svilupparlo, si può così sintetizzare: un manager ha il dovere di interessarsi unicamente agli azionisti, assumendoli a riferimento primario del governo dell’impresa.”

Nella parte finale della risposta Gallino affronta l’avvincente questione dei codici etici di comportamento delle imprese, gran numero dei quali si può leggere sul Web.

Il punto è che non c’è quasi impresa quotata italiana o straniera che non pubblichi un proprio codice etico e comportamentale: una costellazione di buone intenzioni tra le quali, in genere, spicca uno dei primi articoli, in cui si ribadisce che la missione primaria di quell’impresa risiede nel massimizzare il valore per gli azionisti. Sarà forse una nuova versione dell’analisi weberiana secondo la quale l’imprenditore si batte per far soldi, però non per amore di questi, bensì per scoprire se rientra tra i predestinati alla vita celeste; come qui c’entri l’etica, però, non è chiaro. D’accordo: un poco più avanti, negli stessi documenti, si legge quasi sempre che bisogna trattare dignitosamente i dipendenti. Ma nel fondo si constata come, pur nei codici che dovrebbero esprimere al meglio l’impegno morale delle imprese, un solo soggetto predomina in modo affatto esplicito, ed esso è sempre costituito dai proprietari-azionisti. I quali nella gran maggioranza sono investitori istituzionali, o proprietari di grandi patrimoni, i cui interessi devono essere anteposti per principio a quelli di ogni altro soggetto – dipendenti, fornitori, comunità locale – toccato dall’attività dell’impresa.
Questo è un aspetto della lotta di classe che passa attraverso la competitività e l’esercizio concreto della responsabilità (o irresponsabilità) sociale d’impresa. Infatti gli azionisti che detengono migliaia di titoli, siano essi enti finanziari o individui, sono espressione della classe dominante; mentre i dipendenti, come pure i fornitori e tutti gli altri soggetti che non fanno parte del gruppo degli azionisti, rientrano nella classe operaia o nella classe media. In quanto tali, sono soggetti che non sembrano meritare alcuna particolare considerazione da parte dell’impresa.
Ciò è stato teorizzato nell’ambito delle scienze economiche, ma è anche permesso dal quadro legislativo nei diversi settori in cui un’impresa deve muoversi.

Forse siamo già di fronte a quello che Karl Polanyi decriveva in questi termini:

Dopo l’abolizione della sfera politica democratica resta solo la vita economica; il capitalismo organizzato nei diversi settori diventa l’intera società. Questa è la soluzione fascista.

Vedere Elon Musk che sfodera un saluto neonazi all’insediamento di Trump potrebbe esserne una delle prime immagini più pacchiane?
Non lo so, ma occhi aperti, ora più che mai.

(Immagine still-frame da “Lavoro amano armata”)

Old Triplett Creek Bridge - Rowan County, Kentucky

Ritorno per dove

Il posto da dove venite è scomparso, quello dove credevate di star andando non c’è mai stato e quello dove siete non conta nulla a meno che non possiate allontanarvene.

Queste parole sono state scelte da Chris Offutt come esergo a “Out of the Woods”, la sua seconda raccolta di racconti – pubblicata in Italia come “A casa e ritorno”. La frase è tratta da “La saggezza nel sangue” di Flannery O’Connor e introduce ottimamente quel senso di spaesamento dato dall’incrociarsi di liberatori allontanamenti con la sotterranea voglia di ritorno a casa che i personaggi dei racconti di Offutt provano sulla loro pelle.

Le ho riportate qui perché rappresentano abbastanza bene il momento che sto vivendo sulla Rete in questo momento: la voglia di tagliare defitnitivamente con la maggior parte dei social network, il ritorno al blog e il contemporaneo istinto di trasformarlo in qualcosa di diverso rispetto a quello che è stato nei suoi ventiquattro anni di esistenza online.

Non so bene come andrà a finire, quello che è certo è che di Chris Offutt, del Kentucky orientale e della letteratura degli Appalachi su queste pagine ne sentirete parlare presto. Forse proprio per risolvere la questione di andate e ritorni, almeno per un po’ di tempo.

(Foto di cmh2315fl | via Flickr)

Attenzione e distrazione - racconto breve

Attenzione e distrazione

Ho scritto questo breve racconto quasi cinque anni fa, lasciandolo poi confinato in una cartella chiamata “Pericolo paradossi” dove si trovano altri tre pezzi tra il surreale e l’assurdo. In questi giorni mi è capitato di parlarne a arsenio bravuomo e così mi sono deciso a pubblicarlo sul blog per non perderne il ricordo.
È dedicato a Rachele e Franco, per tutte le volte che mi hanno salvato gli occhi e la mente dal niente.


La situazione era diventata insostenibile. Si era arrivati al punto che tre incidenti stradali su quattro erano dovuti a quel tipo di distrazione. Eppure le persone continuavano in quell’attività in tutte le situazioni, sia fossero ferme a un semaforo, sia stessero sorpassando. Chi guidava non riusciva a staccare gli occhi anche se in strada c’erano bambini, processioni, posti di blocco o ambulanze con le sirene accese.
Si era arrivati al punto di convocare un consiglio dei ministri straordinario per arginare quella che continuavano a chiamare emergenza. Non passava giorno senza che qualcuno morisse. Due, tre, quattro al giorno. Il dato era quasi costante, le variazioni erano minime, il numero totale in un anno oltrepassava sempre le migliaia. Senza contare il numero delle persone ferite. Quello aumentava sempre.

Il ministro della Salute, alla vigilia di quel consiglio dei ministri, aveva dichiarato che non era possibile per un paese civile che una quota importante della spesa sanitaria servisse a tamponare una calamità autoimposta. Il ministro dell’Interno, poco prima di entrare a Palazzo Chigi, aveva tuonato contro la permissività delle leggi elogiando nello stesso tempo polizia, carabinieri e vigili urbani “da soli in strada dalla mattina alla sera, con mezzi e stipendi non degni di quella professione.”

Il consiglio dei ministri era durato più di un’ora, un record per riunioni che di solito ne duravano meno della metà. Stavolta non era stato un incontro formale, come di solito accadeva. C’era da essere sicuri che nessuno tra i partiti che appoggiavano il governo potesse avere tentennamenti o posizioni defilate rispetto alla decisione finale, già presa in altre stanze. Ossia che la principale responsabilità, la colpa, sottolinearono più volte i politici cattolici, era interamente del ministro della Cultura. L’emerito incapace – come lo definivano ogni giorno l’opposizione e anche una discreta manciata di deputati della maggioranza – che il Presidente del consiglio aveva accettato a malincuore nell’esecutivo anche se alle elezioni non aveva conquistato il suo seggio, seppur candidato in un collegio di quelli sicuri dove sarebbe passato anche il coniglio di Masha e Orso. Così aveva dichiarato una sera in un talk show un opinionista noto per il suo mischiare argomenti alti e popolari con facile disinvoltura.

Aveva iniziato l’attacco il ministro dei Trasporti, sostenendo che l’iniziativa era stata concepita per mettere in difficoltà il suo ministero e la sua parte politica. Aveva anche insinuato il dubbio che quello del ministro della Cultura fosse il primo passo per il boicottaggio del sistema commerciale e dello sviluppo economico della nazione. Dopo di lui, il ministro dello Sviluppo economico aveva ripreso l’accusa e aveva snocciolato per un paio di minuti buoni una serie di dati e cifre a dimostrazione del fatto che gli effetti della campagna ministeriale erano ben visibili e misurabili in tutta la loro drammaticità: il PIL non aumentava, il deficit cresceva, gli investitori esteri diminuivano, l’economia ristagnava avviandosi verso la recessione.

Il Presidente del consiglio, dopo i primi interventi, cercò di mettere sul tavolo proposte concrete e da attuare il prima possibile. Si poteva subito aumentare l’IVA di un bel po’ sul prodotto in vendita, anche portandola oltre il 50%, per scoraggiarne l’acquisto da parte delle classi meno abbienti. Poi si sarebbe potuto imbastire una campagna di sensibilizzazione usando immagini scioccanti e testimonianze dirette dei parenti delle vittime e di chi era rimasto seriamente leso da incidenti di quel tipo. Il ministro dell’Interno aveva subito specificato che le forze dell’ordine erano allo stremo. Prima di tutto ci volevano più operatori di pubblica sicurezza, insieme a sanzioni e pene molto più pesanti. Ritiro della patente permanente, multe salatissime, anche il carcere, senza possibilità di sconti di pena. Il ministro della Giustizia aveva immediatamente avallato la proposta, quello della Difesa aveva aggiunto che si poteva usare l’esercito per presidiare le strade più trafficate.
Il ministro dello Sport ricordò che la partecipazione a eventi e manifestazioni sportive e ricreative era calato di più del 70% e quello dell’Informazione si lamentò che lo share delle trasmissioni televisive navigava ormai su dati che non permettavano di vendere pubblicità a prezzi adeguati e che nonostante il canone fosse già stato abbassato due volte, non si era ottenuto nessun risultato significativo.
Il ministro della Cultura non disse una parola, tormentandosi per tutto il tempo i baffi con l’indice e il pollice, come a volerli stirare per coprire il labbro superiore. Quando furono chieste le sue dimissioni fece solo un cenno d’assenso, distogliendo per qualche secondo la mano da sotto al naso e abbassando ulteriormente lo sguardo.

Ne uscirono di notte, con i giornalisti che li aspettavano infreddoliti sotto il portone. Parlò solo il Presidente del consiglio e disse che il governo, all’unanimità, aveva deciso di sospendere immediatamente la ben nota campagna promossa dal Ministero della Cultura a causa delle “prolungate e persistenti conseguenze che hanno avuto e continuano a avere sulla popolazione”.
Aggiunse che aveva accettato le dimissioni del Ministro della Cultura e che “il presidente del consiglio” – parlò di sé in terza persona – aveva già firmato un decreto legge e che pertanto, già dall’indomani mattina, chiunque fosse stato trovato in condizioni tali da mettere in pericolo la cittadinanza, sarebbe stato passibile di sanzioni pecuniarie “molto pesanti” e, nel caso, le forze dell’ordine avrebbero avuto la possibilità di fermare e trattenere i trasgressori al fine di far cessare immediatamente il pericolo costituito per l’intera comunità.

Qualche giornalista provò a porre delle domande, ma il presidente, ben scortato, per tutta risposta si infilò veloce in un’auto che partì nel nero-arancione della notte.
Un giornalista, uno tra i più vecchi, scrisse per primo sul suo profilo social: “E adesso la smetteranno con questo maledetto odore della carta sempre in offerta in televisione, al supermercato e nei negozi online.” Il suo post fu condiviso da migliaia di persone nel giro di pochi minuti. Una buona parte era la stessa che fino al giorno prima non avrebbe staccato gli occhi dalla pagine nemmeno in caso di incendio della casa. Meme contro i lettori, gli scrittori e gli editori si moltiplicarono e variarono con più forza di un virus.

Già a partire dalla mattina seguente l’annuncio del presidente del consiglio, furono fatti a pezzi, imbrattati e bruciati i numerosi cartelloni pubblicitari che avevano sparso per tutta la nazione il messaggio “La bellezza sta negli occhi di chi legge”. Furono ritirati gli spot, sospesa la pubblicazione di immagini e video dalla televisione e dalla Rete – dove la frase fu straziata e ridicolizzata in mille modi irriverenti.
Nel giro di un paio di settimane, non senza sorpresa anche da parte della stampa estera, in tutto il paese nessuno leggeva più un libro e il governo andò avanti, sostenuto da una maggioranza, sia in Parlamento sia nelle strade, che non aveva mai avuto.

L’ex ministro della Cultura, intervistato da una televisione svizzera, dopo aver espresso il suo cordoglio per le vittime della sua campagna di lettura, tentò di scaricare la responsabilità quasi interamente sui dirigenti del ministero con cui si era trovato a collaborare, senza poterne avere di propri da insediare. Nell’ultima risposta citò la famosa frase di Balzac “una notte d amore è un libro letto in meno” invitando la popolazione europea a fare più figli “che sono il vero futuro dell’umanità, anche a costo di avere genitori analfabeti.”

(L’immagine originale, che ho riadattato al racconto, è di Kate Trysh | via Unsplash)