Sono nomadi nucleari: lavoratori e lavoratrici che prestano la loro opera nelle centrali nucleari francesi spostandosi di città in città e vivendo in camper e roulotte che piazzano nei campeggi o, quando non trovano posto, in parcheggi e aree di sosta nelle vicinanze degli impianti. Il loro lavoro passa attraverso l’intermediazione di agenzie interinali che ormai li conoscono e che li contattano, una settimana o pochi giorni prima, per la manutenzione dei reattori, lo smaltimento delle scorie radioattive o per pilotare le gru polari che manovrarno fusti e materiali contaminati.
Viaggiano attraverso la Francia: dalla centrale di Flamanville in Normandia a quella di Golfech in Occitania, da quella di Civaux nella Nuova Aquitania a quella di Dampierre nella regione del Centro-Valle della Loira, stando sempre attenti a non superare la quantità di radioattività – misurata in millisievert – che il loro corpo può assorbire.
Sono loro i protagonisti di “Atomnomaden” il documentario che Kilian Armando Friedrich e Tizian Stromp Zargari, studenti del terzo anno dell’Università della televisione e del cinema di Monaco di Baviera, hanno girato affittando loro stessi un camper e seguendo quattro lavoratori e descrivendo, senza aggiungere commenti esterni o voci-off, i loro viaggi, le loro difficoltà e speranze.
Sono tutti tra i trenta e i quaranta anni: c’è Jérome, un padre di famiglia che vede la moglie e i tre figli solo nei fine settimana quando questi lo raggiungono per poter stare insieme nei pressi dei luoghi dove lavora, ci sono Marie-Lore e Florian, una coppia che viaggia da una centrale all’altra e che a volte è costretta a dividersi per seguire impieghi provenienti da centrali lontane tra loro, c’è Vincent, che pur di raggiungere il suo scopo, accetta trasferte e lavori molto pericolosi con pochi giorni di anticipo.
Se la motivazione che muove il padre di famiglia è che nel luogo dove risiede non si trova un lavoro capace di sostenere la sua famiglia, l’obbiettivo di Marie-Lore e Florian e di Vincent è molto simile: vogliono mettre da parte più soldi che possono per comprarsi un pezzo di terra e vivere senza più condurre un’esistenza errabonda. Vincent ha già comprato un terreno dove progetta di costruire una casa e vivere come se fosse in pensione – “Coltiverò verdure e pianterò alberi da frutto. Due o tre galline e conigli. Le basi” – mentre Marie-Lore e Florian, nel dialogo che apre il film dicono:
Altri cinque anni, al massimo? Avremo quarant’anni. Vorrei sistemarmi. Vorrei farla finita con questa storia. Vorremmo un po’ di libertà.
Possedere un po’ di terra, essere indipendenti. Niente bollette da pagare. Lavorare per noi stessi. Coltivare verdure, allevare bestiame. Almeno lavori per te, non per arricchire gli altri.
La ragione economica è alla base di tutto perché il nucleare paga bene. Per lavori altamente rischiosi e intermittenti, come quelli portati avanti da nomadi nucleari esperti come i protagonisti del film, si possono fare anche cinquemila euro al mese. A costo di una vita instabile, sempre sull’orlo delle dosi di radiazioni a cui sono sottoposti i loro corpi, di una solitudine e di una precarietà che costringe queste persone, che hanno anni di esperienza sulle spalle, a accettare mansioni che i lavoratori più inesperti non possono ricoprire.
Emblematica è la considerazione che Vincent fa a proposito del montaggio e rimontaggio dei tubi chiamati bypass:
È una tortura. Questi bypass sono una tortura.
Bypass è il nome dei tubi peggiori di tutta la centrale. Sono i due tubi che vanno direttamente al nucleo del reattore. A volte prendo un mese di radiazioni in una sola mattina. Poi mi mettono in un’altra parte dell’impianto. È davvero uno schifo. È meglio essere esposti a un po’ di radiazioni ogni giorno e raggiungere la propria quota entro la fine del mese piuttosto che riceverne un mese intero in un solo giorno.
Eppure, nonostante questo legittimo sfogo, non c’è traccia di vittimismo nelle loro storie. Non c’è nemmeno rabbia perché sanno e sperano che quello che fanno avrà una fine e una destinazione completamente diversa. La solidarietà è limitata ai dialoghi che avvengono, almeno nel caso di Vincent, con alcuni colleghi nei dopo cena, quando si esce dal camper e si scambiano un po’ di parole e di esperienze. Sempre fumando una sigaretta: in questo film si fumano decine di sigarette. I protagonisti accendono e spengono sigarette in continuazione, intervallate da qualche birra o cocacola corretta per sconfiggere le ore di solitudine che intervallano i turni di lavoro.
Prima di vedere il film, leggendone solo la sinossi, avevo pensato agli hobo statunitensi: quel lumpenproletariat che, specie ai tempi della grande depressione, era costretto a saltare clandestinamente sui treni per raggiungere i luoghi dover poter trovare un lavoro, seppur temporaneo e poco pagato. Quella massa di lavoratori vagabondi – cantati e narrati, tra gli altri, da Woody Guthrie e John Steinbeck – però hanno poco a che fare con gli atomnomaden qui ritratti. Come dice Tizian Stromp Zargari, uno dei due registi, in un’intervista*: queste persone, a parte Jérome che ha più anni e ha già una famiglia, non sono rassegnate, hanno un progetto di vita e hanno anche introiettato una razionalità neoliberista – quella del fare soldi nel minor tempo possibile in modo da vivere poi la loro vita lontani dalle centrali nucleari.
I protagonisti di questo documentario sono diversi anche dai nomadi di Nomadland, il film di Chloé Zhao tratto dall’omomimo libro di Jessica Bruder, sui vandwellers americani, affogati dai debiti dopo la grande recessione del 2007, che lasciando lavori e abitudini non più disponibili scelgono un’esistenza nomade sui loro furgoni, camper e van sviluppando uno stile di vita alternativo e forgiando legami di solidarietà volutamente fuori dal vecchio concetto di sogno americano.
Su tutta la narrazione, scandita da un montaggio volutamente ellittico, aleggiano la risonanze oscure e inquietanti della colonna sonora di Ludovica Failla, a sottolineare i paesaggi e i cieli plumbei, sfocati dal vapore acqueo delle torri di refrigerazione, smorzando i rumori dei camper sulle strade percorse dai nomadi nucleari. Fino alla didascalia che funge da dedica finale: “A tutti i lavoratori e le lavoratrici che lavorano nelle centrali nucleari permettendoci di avere l’energia elettrica.”
Potete vedere “Atomnomaden” all’interno della rassegna Artekino, sul sito web di Arte.tv, fino al 31 dicembre. L’audio è nell’originale francese, ma si possono attivare i sottotitoli in italiano.
Buona visione.
* l’intervista ai due registi è visibile, come per gli altri film della rassegna, sempre sul sito Arte.tv – in inglese, con sottotitoli in francese e tedesco. Da vedere anche per capire la genesi del film: la sopresa di uno dei due registi nel vedere parcheggi pieni di camper e roulotte in posti che di vacanziero non hanno niente.