Nuclear Nomads - film documentario di Kilian Armando Friedrich e Tizian Stromp Zargari

Atomnomaden

Sono nomadi nucleari: lavoratori e lavoratrici che prestano la loro opera nelle centrali nucleari francesi spostandosi di città in città e vivendo in camper e roulotte che piazzano nei campeggi o, quando non trovano posto, in parcheggi e aree di sosta nelle vicinanze degli impianti. Il loro lavoro passa attraverso l’intermediazione di agenzie interinali che ormai li conoscono e che li contattano, una settimana o pochi giorni prima, per la manutenzione dei reattori, lo smaltimento delle scorie radioattive o per pilotare le gru polari che manovrarno fusti e materiali contaminati.
Viaggiano attraverso la Francia: dalla centrale di Flamanville in Normandia a quella di Golfech in Occitania, da quella di Civaux nella Nuova Aquitania a quella di Dampierre nella regione del Centro-Valle della Loira, stando sempre attenti a non superare la quantità di radioattività – misurata in millisievert – che il loro corpo può assorbire.
Sono loro i protagonisti di “Atomnomaden” il documentario che Kilian Armando Friedrich e Tizian Stromp Zargari, studenti del terzo anno dell’Università della televisione e del cinema di Monaco di Baviera, hanno girato affittando loro stessi un camper e seguendo quattro lavoratori e descrivendo, senza aggiungere commenti esterni o voci-off, i loro viaggi, le loro difficoltà e speranze.

Sono tutti tra i trenta e i quaranta anni: c’è Jérome, un padre di famiglia che vede la moglie e i tre figli solo nei fine settimana quando questi lo raggiungono per poter stare insieme nei pressi dei luoghi dove lavora, ci sono Marie-Lore e Florian, una coppia che viaggia da una centrale all’altra e che a volte è costretta a dividersi per seguire impieghi provenienti da centrali lontane tra loro, c’è Vincent, che pur di raggiungere il suo scopo, accetta trasferte e lavori molto pericolosi con pochi giorni di anticipo.
Se la motivazione che muove il padre di famiglia è che nel luogo dove risiede non si trova un lavoro capace di sostenere la sua famiglia, l’obbiettivo di Marie-Lore e Florian e di Vincent è molto simile: vogliono mettre da parte più soldi che possono per comprarsi un pezzo di terra e vivere senza più condurre un’esistenza errabonda. Vincent ha già comprato un terreno dove progetta di costruire una casa e vivere come se fosse in pensione – “Coltiverò verdure e pianterò alberi da frutto. Due o tre galline e conigli. Le basi” – mentre Marie-Lore e Florian, nel dialogo che apre il film dicono:

Altri cinque anni, al massimo? Avremo quarant’anni. Vorrei sistemarmi. Vorrei farla finita con questa storia. Vorremmo un po’ di libertà.
Possedere un po’ di terra, essere indipendenti. Niente bollette da pagare. Lavorare per noi stessi. Coltivare verdure, allevare bestiame. Almeno lavori per te, non per arricchire gli altri.

La ragione economica è alla base di tutto perché il nucleare paga bene. Per lavori altamente rischiosi e intermittenti, come quelli portati avanti da nomadi nucleari esperti come i protagonisti del film, si possono fare anche cinquemila euro al mese. A costo di una vita instabile, sempre sull’orlo delle dosi di radiazioni a cui sono sottoposti i loro corpi, di una solitudine e di una precarietà che costringe queste persone, che hanno anni di esperienza sulle spalle, a accettare mansioni che i lavoratori più inesperti non possono ricoprire.
Emblematica è la considerazione che Vincent fa a proposito del montaggio e rimontaggio dei tubi chiamati bypass:

È una tortura. Questi bypass sono una tortura.
Bypass è il nome dei tubi peggiori di tutta la centrale. Sono i due tubi che vanno direttamente al nucleo del reattore. A volte prendo un mese di radiazioni in una sola mattina. Poi mi mettono in un’altra parte dell’impianto. È davvero uno schifo. È meglio essere esposti a un po’ di radiazioni ogni giorno e raggiungere la propria quota entro la fine del mese piuttosto che riceverne un mese intero in un solo giorno.

Eppure, nonostante questo legittimo sfogo, non c’è traccia di vittimismo nelle loro storie. Non c’è nemmeno rabbia perché sanno e sperano che quello che fanno avrà una fine e una destinazione completamente diversa. La solidarietà è limitata ai dialoghi che avvengono, almeno nel caso di Vincent, con alcuni colleghi nei dopo cena, quando si esce dal camper e si scambiano un po’ di parole e di esperienze. Sempre fumando una sigaretta: in questo film si fumano decine di sigarette. I protagonisti accendono e spengono sigarette in continuazione, intervallate da qualche birra o cocacola corretta per sconfiggere le ore di solitudine che intervallano i turni di lavoro.

Prima di vedere il film, leggendone solo la sinossi, avevo pensato agli hobo statunitensi: quel lumpenproletariat che, specie ai tempi della grande depressione, era costretto a saltare clandestinamente sui treni per raggiungere i luoghi dover poter trovare un lavoro, seppur temporaneo e poco pagato. Quella massa di lavoratori vagabondi – cantati e narrati, tra gli altri, da Woody Guthrie e John Steinbeck – però hanno poco a che fare con gli atomnomaden qui ritratti. Come dice Tizian Stromp Zargari, uno dei due registi, in un’intervista*: queste persone, a parte Jérome che ha più anni e ha già una famiglia, non sono rassegnate, hanno un progetto di vita e hanno anche introiettato una razionalità neoliberista – quella del fare soldi nel minor tempo possibile in modo da vivere poi la loro vita lontani dalle centrali nucleari.
I protagonisti di questo documentario sono diversi anche dai nomadi di Nomadland, il film di Chloé Zhao tratto dall’omomimo libro di Jessica Bruder, sui vandwellers americani, affogati dai debiti dopo la grande recessione del 2007, che lasciando lavori e abitudini non più disponibili scelgono un’esistenza nomade sui loro furgoni, camper e van sviluppando uno stile di vita alternativo e forgiando legami di solidarietà volutamente fuori dal vecchio concetto di sogno americano.

Su tutta la narrazione, scandita da un montaggio volutamente ellittico, aleggiano la risonanze oscure e inquietanti della colonna sonora di Ludovica Failla, a sottolineare i paesaggi e i cieli plumbei, sfocati dal vapore acqueo delle torri di refrigerazione, smorzando i rumori dei camper sulle strade percorse dai nomadi nucleari. Fino alla didascalia che funge da dedica finale: “A tutti i lavoratori e le lavoratrici che lavorano nelle centrali nucleari permettendoci di avere l’energia elettrica.”

Potete vedere “Atomnomaden” all’interno della rassegna Artekino, sul sito web di Arte.tv, fino al 31 dicembre. L’audio è nell’originale francese, ma si possono attivare i sottotitoli in italiano.
Buona visione.


* l’intervista ai due registi è visibile, come per gli altri film della rassegna, sempre sul sito Arte.tv – in inglese, con sottotitoli in francese e tedesco. Da vedere anche per capire la genesi del film: la sopresa di uno dei due registi nel vedere parcheggi pieni di camper e roulotte in posti che di vacanziero non hanno niente.

Addestrare le intelligenze artificiali con il labeling a 2 dollari l'ora in Kenya

Benessere dell’IA e sfruttamento degli umani

Lavorare otto ore al giorno, quaranta ore a settimana per etichettare contenuti – tecnicamente si chiama data labeling – che consentono di addestrare, attraverso il machine learning, un’intelligenza artificiale.
Solo che si viene pagati 2 dollari all’ora, attraverso un’agenzia di intermediazione che, nel contratto che ha con l’impresa che lo richiede, ha scritto che la paga oraria è di 12 dollari l’ora.
Non solo: i tempi di consegna sono strettissimi, a volte questione di minuti o secondi. E anche i contratti che vengono utilizzati sono di tipo molto breve: possono essere di durata mensile, settimanale o giornaliera.
Infine c’è il fatto che molti dei contenuti che devono essere etichettati sono di tipo violento: pornografia estrema, suicidi, massacri, abusi di generi nemmeno nominabili che i lavoratori e le lavoratrici devono guardare e annotare per ore, subendo danni enormi a livello psicologico: depressione, ansia, asocialità, disturbo da stress post-traumatico, solo per dirne alcuni.
Tutto questo accade in una nazione che è lontana migliaia di chilometri dalla Silicon Valley: il Kenya, dove le leggi sul lavoro sono ferme a venti anni fa e la ricattabilità di chi lavora è resa ancora più grave dalla scarsità di lavoro – la percentuale di disoccupazione giovanile è quasi al 70%.

E quali sono le imprese che si avvalgono di questo tipo di manodopera altamente specializzata? Sono i colossi del Big-tech, le più ricche e potenti del mondo: Meta, OpenAI, Microsoft e Google.
Ora un parte di questi lavoratori e lavoratrici digitali – chiamati humans in the loop – ha deciso di denunciare queste ottocentesche condizioni di sfruttamento, ennesima forma di divisione internazionale del lavoro e di neo-colonialismo. Spero che riescano a ottenere condizioni e paghe dignitose il prima possibile.

Di fronte a questa situazione, insopportabile per chi ha un minimo a cuore la giustizia sociale, stride chi invece fa astrologia per il capitalismo digitale – rubo l’espressione a Alberto Cappellaro da Bluesky.
Leggo oggi sul blog di Bluebabbler che per qualcuno bisogna cominciare a considerare come si sente un’intelligenza artificiale a lavorare, e bisogna pensare al suo benessere.
Sì, avete letto bene: il benessere dell’intelligenza artificiale.
Bluebabber spiega in un paio di punti l’insensatezza di un’affermazione del genere e conclude evidenziando i motivi per i quali si arriva a questo livello di cialtroneria:

Perché tutta questa cialtroneria? Semplice: profitto. Anzi, peggio. Prima ancora del profitto, raccogliere finanziamenti miliardari.
O farsi assumere per mansioni inesistenti.

Il profitto arriverà dopo, e se anche non arriverà in qualche modo vedrai che ci si aggiusterà.

Ecco cosa unisce i lavoratori digitali del Kenya alle balle di chi si preoccupa della salute di un’intelligenza artificiale. Forse sarà troppo manichea e sbrigativa come conclusione, ma credo che chi lo vuole vedere ce l’ha sotto gli occhi tutti i giorni, chi non vuole è perché o ci guadagna o pensa di guadagnarci in futuro.
Come è stato detto tanto tempo fa pensando alle lotte dei minatori di Harlan County, Kentucky: tu da che parte stai?

Qui sotto incorporo il video dal canale YouTube di 60 Minutes sullo sfruttamento dei digitals workers di Nairobi da cui sono tratte tutte le informazioni della prima parte del post.

Somewhere Over the Chemtrails - film di Adam Koloman Rybanský

Somewhere Over the Chemtrails

Mi è piaciuto subito a partire dal titolo, calco ironico della famosa canzone*. E, dopo gli ottantre minuti di durata, l’esordio nel lungometraggio di Adam Koloman Rybansky, giovane regista e sceneggiatore ceco, ha confermato in pieno quello che mi aveva lasciato immaginare.

Somewhere Over the Chemtrails” è una tragicommedia ambientata in un più che pacifico, direi sonnacchioso, paesino nella campagna della Moravia**, regione sud-orientale della Repubblica Ceca. La calma e la semplicità delle sue abitudini vengono interrotte quando, durante le festività di Pasqua, un furgone sbuca nella piazza schiantandosi sulla fontana e ferendo uno degli abitanti, appartenente all’unica famiglia gitana del paese. La locale squadra di vigili del fuoco a questo punto si trasforma in una sorta di milizia, armata di bastoni e asce, che inizia a pattugliare le strade e a perquisire le case, dove gli abitanti si sono rinchiusi per ordine del sindaco, alla ricerca del conducente. Perché la paura che contagia tutti è che si sia trattato di un attentato terroristico, dopo che Bronya, il comandante dei pompieri, ha detto in un’intervista alla televisione che ha visto fuggire un uomo dalla pelle scura, “forse un arabo“.

Insieme a Bronya, l’altro protagonista del film è Standa: impigliato in un fisico barbagiannesco, fa parte come volontario dei vigili del fuoco, non è bravo nelle cose pratiche e si affida a Bronya per molte di queste, dal tagliare un ciliegio in giardino a stappare una birra senza l’apribottiglie. I due hanno un rapporto del tipo padre-figlio: se Bronya è un aiuto in tutte le faccende fisiche, Standa a sua volta è un appoggio per la profonda tristezza che coglie spesso Bronya che ha perso da poco la moglie.
Standa è un uomo buono, a volte così ingenuo da rasentare la stupidità: quando un suo collega pompiere – dal discutibile taglio di capelli – gli parla della pericolosità delle scie chimiche, Standa inizia a cercare informazioni su Internet e adotta buffe abitudini basate su un fantomatico potere dell’aceto. Ma così facendo non fa altro che aumentare la sue preoccupazioni che nel frattempo, nei suoi colleghi e negli abitanti, si trasformano in diffidenza e razzismo verso gli stranieri – anche se di stranieri non ce ne sono, a parte la tranquillissima famiglia di origine gitana. Le vicenda si concluderà con una serie di azioni e reazioni, in un gioco di sponde tra il tragico e il comico, che colorerà il destino dei protagonisti di tinte sfumate, evitando distinzioni nette tra buoni e cattivi.

Ciò avviene grazie a un’ironia sottile, mescolata a una sapiente dose di humour nero, che rende “Somewhere Over the Chemtrails” un’opera capace di indagare temi quali il pregiudizio, il populismo e la xenofobia senza aver bisogno di ridicolizzare nessuno dei personaggi. Tutti vengono ritratti nella loro simpatia come nelle loro ambiguità, anche quando fanno o credono a cose insensate o altamente improbabili, che si tratti della scie chimiche o della vendetta divina. Anche il prete e il sindaco, che in una commedia si presterebbero perfettamente a incarnare stereotipi puramente comici e macchiettistici, sono tratteggiati con l’intento di comprenderne il comportamento e le fragilità, specie in una situazione in cui le loro azioni sono fortemente influenzate dalla paura e dalla disinformazione. Perfino i due giovani neonazi, arrivati in paese per dare manforte nella ricerche del presunto terrorista islamico, vengono dipinti come due bimboni interessati più che altro a assumere pose da duri o a giocare alla lotta l’uno contro l’altro, ma pronti a mollare le spranghe e tornarsene a casa a piedi appena non c’è più nessuno da cercare.
Tutto ciò riguarda le gesta dei principali personaggi maschili. Per il principale personaggio femminile, rappresentato da Jana, la moglie incinta di Standa, è diverso.
Se il marito e i colleghi pompieri sono preda di comportamenti irrazionali, spacciati per voglia di sicurezza e di protezione, Jana mantiene una lucidità e una tempra anche nei giorni in cui tutte le famiglie del paese sono costrette in casa. La scena in cui si accorge delle ricerche sul Web di Standa sulle scie chimiche è esemplare: “Non mi dire che credi a queste stronzate”. O quella in cui rimprovera Bronya per aver detto in tv che ha visto un uomo dalla pelle scura, sapendo che non è vero: “Non dovresti spaventare tutti finché non sappiamo la verità”. Ma nemmeno lei, come il regista, si mette a prendere in giro i loro comportamenti: cerca di capire e far ragionare, in maniera decisa ma rispettosa, il marito e il suo amico. Eppure l’ambiente del paese non è di sicuro favorevole al genere femminile: la scena in cui i componenti della ronda sentono le urla di una donna e si allarmano, ma poi non fanno assolutamente niente quando si accorgono che è soltanto il marito che la rincorre con una frusta ce lo mostra in tutta la sua crudele assurdità.
[Aggiornamento] Grazie al commento di Massimiliano – vedi sotto – ho appreso che la scena in questione non è violenza domestica, ma fa parte di una tradizione boema/morava che si celebra la mattina del lunedí di Pasqua. Grazie di cuore a Massimiliano per avermi corretto e avermi fatto imparare una cosa nuova. I blog servono anche a questo.

L’assurdo della vita quotidiana è uno dei temi che lega l’opera prima del regista ceco alla Nová vlna, il movimento cinematografico nella Cecoslovacchia degli anni sessanta: in un’intervista*** si dichiara un estimatore dei primi film di Milos Forman che, insieme a Jaroslav Papoušek e Ivan Passer e altri, fu tra gli esponenti principali della nouvelle vague ceca. Rybansky dice di amare i loro film per come siano comici, buffi, crudeli e critici nello stesso tempo. Riguardo alla genesi del film afferma:

“Sono nato in un piccolo paese di 5000 abitanti dove alcuni dei miei migliori amici e anche alcuni membri della mia famiglia avevano opinioni un po’ razziste su alcune questioni. Con questa storia ho voluto raccontare e esplorare proprio questo: quando qualcuno che ti è vicino inizia a essere un po’ razzista. […] Quando ho iniziato a lavorarci era il 2017, un anno in cui in alcune città europee ci sono stati attentati terroristici che hanno usato un autoveicolo come mezzo di distruzione. E ho pensato: cosa succederebbe se qualcosa di simile avvenisse in un piccolo paese? Una cosa assurda di sicuro, ma questa è stata l’idea base per questo lungometraggio.”

Insomma, un film da guardare di sicuro: lo potete fare gratis su Arte.tv fino al 31 dicembre, all’interno della rassegna Artekino, rassegna di nove film diretti da giovani registi europei, segnalati o premiati nei principali festival del nostro continente.
Buona visione.


* al di là delle numerose interpretazioni e dei simbolismi successivamente acquisiti, “Somewhere over the Rainbow” per me rimarrà sempre la canzone legata a uno dei libri più belli di Beppe Fenoglio.

** la maggior parte delle riprese del film sono state effettuate a Chvalnov-Lísky: questa è la chiesa dove è stata girata la messa di Pasqua e la scalinata dove Bronya tiene un discorso populista.

*** L’intervista al regista è visibile sempre su Arte.tv, e si trova corredo di ogni film presentato nella rassegna Artekino. Ah, se volete, potete registrarvi e votare i lungometraggi partecipando così all’estrazione di una bici elettrica. Io, che personalmente ho una discreta allergia verso ranking e stelline, l’ho fatto perché se vinco, vendo la bici elettrica e ne compro una nuova a pedali ché sto sempre seduto davanti a un monitor e fare un po’ di movimento senza inquinare fa bene a me e a chi mi sta intorno.

Georges Fraipont Paris Flâneurs à la Madeleine

Il flâneur, i condomini e i siti web

Riuscite a ricordare l’ultima volta che avete navigato da un sito web all’altro, senza passare da social network o motori di ricerca, ma semplicemente balzando di link in link?
Chi se lo ricorda, e chi ancora lo fa, sa bene che così ha l’opportunità di incontrare interfacce molto diverse: si può passare da quelle minimali con sfondo rigorosamente bianco a quelle barocche, zeppe di banner, gif animate e immagini, da siti formati da una sola pagina a blog striati dalle classiche colonne laterali, destre o sinistre che siano. Si transita da siti bellissimi a siti sinceramente brutti, da long-form curatissimi a laconici post di poche righe di testo. Questo navigare il Web è un po’ come il vagabondare da un quartiere all’altro di una grande città. I nostri occhi incontrano una varietà estetica che a volte può anche disorientare, come il flâneur che si immerge nel corpo della metropoli: può somigliare a una sorta di vagabondaggio in zone libere dal design della persuasione, senza l’ossessione del commento o dell’interazione a tutti i costi, ozioso e privo di fretta come “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi” – per citare Baudelaire.
E questa varietà di ipertesti è resa possibile dal fatto che ognuno di questi siti web è stato creato da una persona diversa: dal nerd intrippato col web design allo scrittore online che non desidera altro che una spazio da formattare con un carattere e un’interlinea più simili che si può alla pagina di un libro.

Avere un proprio sito personale – blog, portfolio o semplice pagina bio che sia – permette di non essere alla mercé di una piattaforma che da un momento all’altro può decidere di cambiare radicalmente la sua policy, di cedere i tuoi dati a terzi o di vendere tutto e chiudere baracca e burattini. E avere un proprio sito web non è un’azione difficile e costosissima. Anche non comprando un dominio e un hosting proprio, ci sono strumenti che ti permettono di pubblicare i tuoi contenuti senza per questo cederli a qualcuno che può farci cosa vuole in qualsiasi momento. Anche la creazione dei contenuti ormai, grazie a backend sempre più intuitivi e semplici, non presuppone più nessuna conoscenza dell’html: si scrive e si pubblica qualcosa così come si scrive un normalissimo documento di testo, con l’unica differenza che alla fine si preme il tasto “Pubblica”.

Avevo in mente da un po’ di scrivere un post di questo genere, ma l’avevo sempre rimandato sia per evitare di evocare qualsiasi nostalgia del Web 1.0: perché non c’è niente da rimpiangere – le età dell’oro non sono mai esistite, nella società come nel calcio o nel Web – e c’è solo e sempre da ragionare e agire. Quello che mi ha spinto a scriverlo è stato questo post di Gita Jackson intitolato “For The Love of God, Make Your Own Website” in cui si ricorda come i social media abbiano cancellato la necessità di creare un sito web per esprimersi online.
In una panoramica che parte dall’avvento delle prime pagine di MySpace fino all’arrivo di Musk, l’autrice sottolinea il fatto di come sia chiaro che i miliardari della tecnologia sanno che possedendo i mezzi di comunicazione, si gestisce l’intero spettacolo. Traduco e riporto qui sotto uno dei paragrafi finali del suo post perché mi sembra un’ottima sintesi di quali potrebbero essere le azioni di intraprendere per costruire un’alternativa al paesaggio oggi dominante:

“Costruire i nostri siti web, creare media indipendenti e impegnarci per social network più democratici: credo che queste siano alcune piccole ma cruciali cose che abbiamo bisogno di fare per creare alternative a quegli ecosistemi tecnologici monopolistici, posseduti da miliardari, ogni giorno più autoritari, che attualmente dominano le nostre vite” – mi ha detto Brian Merchant, autore di Blood in the Machine.
[…]
Per me, possedere un mio sito web, anche se lo gestisco come un’attività commerciale con i miei amici, mi dà un grado di libertà sul mio lavoro che non avevo mai avuto prima.

Qui si sta decisamente dalla sua parte e si scrive e si pubblica perché altri e altre si uniscano progressivamente a questa parte di Web stufa di condomini tutti uguali, di proprietà di un solo padrone. Un’uniformità ipertestuale dove è quasi impossibile distinguere la propria homepage da quella di milioni di altre e dove potrebbe capitare di entrare nel profilo di qualcun altro scambiandolo per il proprio – come succedeva a uno dei protagonisti di “Ironia del destino, ovvero Buona sauna!” che, ancora ubriaco dopo la notte di Capodanno, entrava in un palazzo a Leningrado identico – ha addirittura le stesse chiavi – al suo a Mosca.

Non è un’ode all’individualismo, ma forse il suo contrario.

(Immagine di Georges Fraipont “Paris, Flaneurs at la Madeleine” | via Artvee)

Tempi duri per il caro vecchio link - Immagine di D koi

Tempi duri per il caro, vecchio link

Non che ci fosse un estremo bisogno di conferme, i più accorti lo avevano già capito sperimentandolo direttamente sulla propria pelle, ma da un paio di giorni ci sono le parole scritte direttamente dal proprietario di X: i post che contengono un link esterno vengono penalizzati nella diffusione sul suo social network.

Facebook è già dal 2017 che adotta questa tecnica, privilegiando commenti e like invece dei click, tanto che i suoi iscritti da un po’ di tempo hanno iniziato a proporre eventuali link esterni nel primo commento dei propri post. È Musk stesso a prendere atto di questo e a dire la stessa cosa per il suo megafono personale: chi vuole può scrivere un descrizione nel primo tweet e inserire il collegamento nel primo reply – così “this just stops lazy linking“.

Will Oremus lo scrive oggi sul Washington Post:

È un altro segnale che l’umile collegamento ipertestuale – il tessuto connettivo dell’Open web – sta attraversando un periodo difficile.

Oltre a X e a Facebook, anche Threads – per bocca del suo reponsabile Adam Mosseri – ha ammesso che il social non penalizza direttamente i post contenenti collegamenti ipertestuali, ma l’algoritmo potrebbe dare priorità a quelli che generano più commenti e like.

Ora: potrei tranquillamente usare l’epressione ormai abusata e cacciariana del “sono vent’anni che lo dico!”, ma non servirebbe a niente. Anzi, sarebbe peggio. Perché se questo è un segnale che lampeggiava da tempo, tipo allarme rosso, agli occhi di chi ha a cuore la condivisione e una visione del web lontana dai giardini recintati tanto cari ai tech bro e ai monopolisti della Rete, bisogna ammettere che non si è avuta la capacità di opporvisi: non si è rusciti a far capire che un link a una fonte esterna era un valore aggiunto per un social perché forniva un’attendibilità e una base più concreta – sempre verificabile dalle persone che cliccavano e andavano a leggere – a un ragionamento o a un’affermazione. Perdendo questa battaglia sui link, sono arrivati gli e le influencer che parlano di argomenti senza alcun bisogno di dimostrare e mostrare nient’altro che il numero stratosferico dei loro followers e relativi commenti.

Per ora, tra i maggiori social network, solo Jay Graber, CEO di Bluesky, ha dichiarato la propria apertura verso i link esterni; e credo che anche Mastodon non applichi nessuna penalizzazione. Per chi vuole starne fuori o non usare soltanto i social, ci sono sempre i blog, i forum, le newsletter e i giardini digitali dove il caro vecchio href, primo motore del web, sopravviverà.
In attesa della chiusura – ne sono sicuro – di questi orticelli chiusi votati principalmente al profitto e a poco più. Perché, come ha ribadito Cory Doctorow aggiungendo un’ultima fase ai tre step dell’enshittification delle piattaforme: alla fine “they die”.

(Immagine di D koi | via Unsplash)

soundwavesoffwax | Instagram

Musica analogica: bellezza e tossicità dei social

Sul Guardian leggo questo articolo che parla di Julia, una giovane canadese a cui il babbo, morto due anni fa, ha lasciato una collezione di più di 10.000 dischi.
Su suggerimento di un amico, Julia inizia, in maniera casuale, a condividerne dei brevi estratti su Instagram: è un modo originale e altruista per tenere vivo il ricordo del genitore e per scoprire autori e generi musicali. Ogni volta che condivide un sample non fa nessuna ricerca online: lo mette e ascolta la musica che il padre ha collezionato per tutta la vita. Così a volte può capitare – anche se è lei stessa una musicista – di incappare in scivoloni e mezze gaffe, tipo quando pronuncia come David Bairon il nome del fondatore dei Talking Heads. Ma questo non conta: oltre al fatto di custodire la memoria del babbo, conta il fatto che entra in contatto con una comunità sempre più ampia di persone interessate alla musica: a alcune fa riaffiorare avvenimenti e memorie legate a quei brani, per altre sono un ottimo aiuto per elaborare lutti simili.
In più, Julia impara anche la gentile arte di ascoltare per intero un album, abbandonando la frenesia di saltare compulsivamente da un brano all’altro: scopre l’analogico.

Le sue parole nel finale dell’articolo mi sono piaciute molto perché sono uno dei motivi per cui tengo molto alla mia collezione di libri (di vinili ne ho molti, molti meno):

“There’s something really beautiful about having physical copies of music,” Jula said. “We can laugh, but when I die, if I have kids, what are they going to be left with – a streaming library?”
(“C’è qualcosa di davvero bello nel disporre di copie fisiche della musica – dice Julia – “Possiamo anche riderne, ma quando morirò, se avrò dei figli, che cosa gli lascerò? La collezione in streaming?”)

E cosa ci incastra la tossicità dei social in questa storia? Dopo aver letto l’articolo del Guardian, vado sul profilo Instagram di Julia, mi iscrivo e inizio a leggere un post. E il primo commento (con una sessantina di like) che leggo dice: “Tuo padre aveva dei dischi terribili”.
Sono andato sul profilo della persona che l’aveva scritto e l’ho bloccato. Poi, mentre scrivevo questo post, ho deciso che avrei anche dovuto segnalarlo: sono ritornato sul post di Instagram, ma era stato rimosso. Mi dispiace, perché avrei voluto individuare e bloccare anche quella sessantina di imbecilli che avevano messo il loro like a quella micropunta di cattiveria gratuita o ignorante che non va mai tollerata.
Lo so che è la scoperta dell’acqua calda, ma conviene sempre ricordarlo: non sono i social a essere tossici o meravigliosi, sono le persone che li usano a decretarne l’utilità o la dannosità.

(Foto via soundwavesoffwax | Instagram)

synth porn in the stalker Zone | Retromania blog

Connessioni, numeri e grattarsi

“Non smetterò mai di scrivere sul blog: è come un prurito che devo grattare – e non mi importa se è un formato superato.”

Sono parole di Simon Reynolds che, quasi un anno fa sul Guardian, scriveva come il blog rimanga per lui il formato perfetto: nessuna restrizione in termini di lunghezza o brevità – sia che si tratti di un meticoloso post di 3000 parole scelte con cura, sia che si tratti di un brogliaccio di meditazioni o fantasticherie. Nessuna norma sul tono e sulla consistenza del tono da usare. Nessuna schiavitù da orari e scadenze.
E, specialmente, la possibilità di divagare, scegliendo e approfondendo temi che non sono di stretta d’attualità, anche sconfinando in campi e argomenti poco conosciuti. (“I can meander, take short cuts and trespass in fields where I don’t belong.”)

Quella che invece è sparita – continuava Reynolds commentando e ampliando l’articolo anche sul suo Blissblog – è la comunicazione tra blog (“But what’s changed – what’s gone – is inter-blog communication”). Sono sparite le relazioni tra blog, insomma. Di conseguenza, le relazioni tra blogger.

L’articolo di Reynolds mi è tornato in mente quando stamattina ho letto il post di Flavio Pintarelli intitolato provocatoriamente “I blog non li legge più nessuno”.
Scrive El Pinta:

L’affermazione trovo sia discutibile e, se nel blogging facciamo rientrare anche chi scrive su Substack (e per me ci rientra eccome), non è vera nemmeno per un secondo.

Ma non è tanto questo che mi fa arrabbiare quanto, piuttosto, la visione della presenza digitale che quell’affermazione sottintende.

Sì, perché dire che i blog non li legge più nessuno significa pensare che il senso di averne uno sia massimizzare la visibilità che la propria presenza digitale comporta.

Perché – e qui sta il succo del discorso – c’è una bella differenza tra scrivere per le relazioni e scrivere per le visualizzazioni.
Il blog innatamente – in quanto mezzo ipertestuale – ha avuto da sempre la capacità di generare relazioni senza che per forza dovessero essere contabilizzate in followers o like di sorta. Spessissimo chi scrive un blog ne legge altri, e abitualmente ne linka i post, discutendone, anche sotto forma di critica i contenuti: è la comunicazione inter-blog che citava Reynolds, quella sottile e semi-quotidiana ragnatela di discussioni, confronti, omaggi, scambi, litigi e critiche che ancora animano le timeline dei blog che citando, linkando, connettono i contenuti e i loro autori/autrici. Attività che oggi è minoritaria, ma non morta – e questo post che sto scrivendo può essere letto come il tentativo donchisciottesco ma sincero di donargli forza.

Le relazioni che nascono su questo tipo di piattaforme sono numericamente inferiori alle cifre da capogiro degli influencer o dei personaggi pubblici: sembrano più fragili, ma hanno in più una veracità, un’autenticità che difficilmente si genera su altri tipi di piattaforme – primi fra tutti i social network – dove la spinta a generare contenuti è data principlamente dal raggiungere più visibilità possibile e influenzando in questo modo forma e sostanza dei contenuti prodotti.
Certo, anche nella blogosfera, c’è stata e resiste l’ansia da prestazione e da visualizzazioni, ma sicuramente non è indotta e incoraggiata dallo strumento stesso su cui si scrive.
Di contro, c’è anche chi da tempo si è reso conto che stare su un social non è una questione di flexare i propri followers, ma di amicizia, interessi comuni e mutuo aiuto: questo post di Paige Jarreau di quasi dieci anni fa lo sintetizzava bene nella sua frase finale:

So what have I learned by reaching 4,000 followers on Twitter? That’s it’s NOT about followers. It’s about friendships.

Poi, per finire, sul fatto che i blog non li legga più nessuno c’è anche chi dice il contrario: nel 2022 di c’erano circa 600 milioni di blog attivi e – a sentire solo quelli su wordpress – circa 70 milioni di post al mese.
Senza fissarsi con i numeri e le prestazioni perché – Flavio ce lo ricorda nel suo post citando Tom Critchlow – facendo così la presenza digitale e il senso di scrivere in rete cambiano radicalmente. Ritrovandosi a sbavare per milioni di pageviews e non accorgendosi delle più modiche e interessanti connessioni che si possono generare.

(Immagine via Retromania | synth porn in the stalker Zone)

Ora X - lascio Twitter dopo 17 anni - Foto di Ales Krivec | Via Unsplash

L’ora X

Credo che Twitter sia stato il primo social a cui mi sono iscritto: era il Gennaio 2007 e ritrovai lì le persone che ancora scrivevano alacremente post sui loro blog, ma iniziavano a ripostarne un estratto e il relativo link anche sulla timeline dell’uccellino blu, rispettando l’allora insolita regola di stare in 140 caratteri.
A ondate sempre più consistenti, una buona parte della blogosfera italiana iniziò a ritrovarsi su queste piattaforme, in particolare su FriendFeed – poi comprato nel 2009 da Facebook, affossato e chiuso sei anni dopo.

Twitter e il suo servizio di micro-blogging invece ha avuto una storia diversa, ma con un finale ugualmente triste, almeno per me.

Con il passare dei mesi, oltre che diffusore dei contenuti pubblicati su altre piattaforme (non social) sul social network creato da Jack Dorsey iniziò a svilupparsi sia una proficua attività di interazione tra i tweep – in gergo nerd le persone iscritte e Twitter si chiamavano così – sia una produzione autonoma di contenuti attraverso la possibilità di pubblicare, oltre al testo, prima foto e poi anche video.
In breve tempo, insieme al succitato Friendfeed, ai blog e a poche testate online, Twitter divenne la principale fonte di informazione, in special modo per i fatti che si stavano svolgendo in diretta, le cosiddette & maledette breaking news. Sull’onda di questo flusso di informazioni nel dicembre del 2008 approntai una trasmissione live “I greci fuochi” sulla mai troppo compianta radio catrame19: una diretta web con social media coverage delle manifestazioni di protesta che per giorni si volsero in Grecia per l’assassinio da parte della polizia del giovane Alexandros Grigoropoulos. Fu un livestreaming molto partecipato, se penso che si tratta di 15 anni fa e che si svolse nel pomeriggio, con YouTube che ancora non usava le live e Twitch che non esisteva proprio. Mi dispiace solo di aver perso la registrazione e di non averla caricata su archive.org.
Twitter e i suoi hashtag si rivelarono uno strumento nuovo e efficacissimo per filtrare e scegliere contenuti: nel luglio 2009, in una intervista/conversazione in un podcast di Antonio Sofi paragonavo un po’ picarescamente i social network alle cozze, capaci di filtrare lo sporco del mare magnum di contenuti tramite innovazioni semplici ma geniali come l’hashtag – nata su Twitter dal basso grazie a un’intuizione del blogger Chris Messina.

Il risultato più utile e umanamente soddisfacente che ho ottenuto grazie a questa funzione di aggregazione, è l’aver scoperto e essere entrato in contatto con nuovi produttori di contenuti, avendo l’opportunità di saggiarne in prima persona l’affidabilità e l’originalità.
Per dirne solo alcuni e dimenticando di sicuro altri e altre ugualmente validi, è stato così che ho conosciuto e apprezzato l’opera di giornalisti e attivisti come Kostas Kallergis, TeacherDude, Theodora Oikonomides, Spyros Gkelis (in Grecia) e Leonardo Bianchi, Marina Petrillo e Claudia Vago (in Italia). E molti altri, in Europa e fuori.
È stato così che, grazie a un’idea di Marina e Claudia, insieme a Mehdi Tekaya e Luca Alagna – vecchia conoscenza nella blosgosfera dei primi anni zero – sono nati esperimenti e progetti come Yearinhashtag e 140nn: strumenti di mediattivismo o citizen journalism o informazione dal basso – o come diavolo volete chiamarlo – che mi hanno permesso sia di apprendere e incrociare conoscenze e media – testuali, audio e video – sia di incontrare e conoscere in real life le persone conosciute sul social network.
È stato ancora così, attraverso l’attività quotidiana sulla piattaforma dei cinguettii, che la gestione e la cura dei contenuti social è diventata parte del mio ormai ultraventennale lavoro online di bit-worker.
Insomma: credo di non esagerare scrivendo che Twitter – al pari del blog – ha rappresentato, almeno per una decina di anni, uno degli ambienti online in cui mi sono trovato meglio, dove ho appreso di più e conosciuto persone in gamba.

Oggi lascio Twitter: pausa a tempo indeterminato dal social che due anni fa è stato comprato da Elon Musk che ne ha cambiato il nome e lo sta progressivamente trasformando nel suo costosissimo – 55 miliardi di dollari – megafono personale, aumentandone la tossicità fino a un punto per me diventato intollerabile.
È scattata l’ora X sia per me sia per altre fonti e comunità digitali che frequento e di cui mi fido: da NPR, tra i primi a andarsene, a Valigia Blu, da Fabio Chiusi al Guardian. Altri e altre sono sicuro che si aggiungeranno nelle prossime settimane, quando il DOGE di Trump si sentirà ancora di più il babbo di Dio e chissà quali altri attacchi da capo-troll e disi/misinformazione sputerà fuori.

Continuerò a usare con parsimonia qualche social network – Bluesky, Mastodon e un po’ meno Facebook – leggerò più libri, avrò più tempo per me, le mie amicizie e le persone che mi girano per casa – come dice un mio vecchio amico blogger.
E mi dedicherò di più e meglio a questo mio trascurato blog, provando a incrociare testi, audio e video in modi a cui penso da tempo e che non ho mai provato a sperimentare qui sopra.
Chiudi tutto, Biascicò!

(Foto di Ales Krivec | Via Unsplash)