I nazisti combattevano l’ultima, decisiva battaglia contro tutte le altre nazioni.
L’Italia era schierata contro i tedeschi che invece potevano contare sull’appoggio del ricchissimo esercito svizzero equipaggiato di tutto punto e vero ago della bilancia del conflitto. Il Giappone era neutrale nel senso che colpiva un po’ dove gli veniva meglio con una flotta tecnologicamente avanzata che faceva paura anche agli americani e ai russi.
La battaglia cruciale si svolgeva su un terreno semi desertico, una terra tendente al rosso dove i pochi arbusti verdi soccombevano ai cingoli dei carri armati con una flessibilità da ginestra leopardiana – ma questo l’avrei scoperto più tardi. La guerra si combatteva con mezzi e bombardamenti pesanti. La fanteria svolgeva compiti per la maggior parte di polizia e di rastrellamento dopo che l’artiglieria e l’aviazione avevano bucherellato e annichilito i pochi centri abitati che avevano la sfortuna di essere nelle vicinanze del teatro bellico.
Le cronache di quei giorni, dalle perdite umane alle postazioni conquistate, erano stati appuntati su un quadernone a quadretti dalla copertina chiara. Un fascicolo dedicato alla seconda guerra mondiale e firmato da Enzo Biagi serviva per capire e stravolgere alleanze e destini. Poi c’erano un po’ di riviste di modellismo del 1981 che i miei genitori compravano per assecondare le fantasie e le storie che loro figlio si inventava per provare a capire – forse esorcizzare – perché i grandi facessero la guerra. Allora la chiamavano ancora fredda; di lì a pochi anni sarebbe finita per lasciar spazio e sangue a nemici nuovi. E i soldatini e i plastici delle battaglie sarebbero finiti in soffitta in uno scatolone, con il novecento e miei undici anni. Oggi li ho ritrovati e gli ho fatto una foto.