Crolleranno le mura che chiamavamo affettuosamente casa. Il vento porterà via l’instabile sabbia su cui poggiavamo saldamente i piedi. Consumati dalle intemperie ci gireremo a guardare le brillanti macerie dei giorni passati. – Stormo, “Delle Nostre Vite Appese”
Queste parole sono tratte da una canzone rimasta a impolverarsi in qualche sottoscala dei miei neuroni per un bel po’ di anni: forse il cervello, per una forma arcaica di difesa, le ha incastrate lì, in un luogo difficile da ritrovare per quanto mi erano rimbombate in testa nel gennaio dell’anno 2017, anche se la prima volta che lo avevo sentite risaliva a circa tre anni prima. In quel mese, la mia vita e quella della mia famiglia erano realmente appese: bloccate nella neve, crepate dalle scosse e in attesa di chissà che cosa.
Autori dei versi sono gli Stormo, uno dei gruppi punk hardcore che più ho apprezzato negli anni dieci di questo disperato nuovo millennio, che le aveva usate sia come parte finale della canzone citata sia per dare il titolo a “Sospesi nel vuoto, bruceremo in un attimo e il cerchio sarà chiuso”, un album che, per me, rimane tra le pietre d’angolo dell’hardcore italiano- o post-hardcore, fate voi.
È anche per questi motivi che ho voluto scrivere su Humans vs Robots di una nuova traccia uscita dalle feroci meningi degli Stormo: si chiama “Come Fauce Che Divora” e chiude il nuovo album del quartetto, uscito il primo giorno di primavera per Prosthetic Records. Per liberare quelle parole dal sottoscala della memoria, affrontare le nuove intemperie e chiudere il cerchio.
“There is nobody in this country who got rich on his own. Nobody.” – Elizabeth Warren
“Lo slogan che ci ripetiamo tra noi Wu Ming è che bisogna cercare di salvarsi il culo il più collettivamente possibile.” – Wu Ming 2
Mi sembra che oggi il termine self-made man, più che insistere sull’autostima e la fiducia nella propria capacità di forgiare da solo il proprio destino, venga usato principalmente per definire qualcuno che non ha bisogno di regole e norme condivise, che non necessita del supporto della comunità o delle opportunità date dal contratto sociale – che anzi vede come ostacoli alla piena realizzazione della sua missione, quasi superomistica. Il suo significato originale, nato per indicare la poliedrica e geniale figura di Benjamin Franklin, è progressivamente slittato verso coloriture più individualiste e egoiste, acquisendo un’accezione da uno contro tutti o da uomo solo al comando distante dall’umanesimo illuminista e allo spirito di servizio che guidavano il pensiero e le azioni dell’uomo giustamente considerato uno dei padri fondatori degli Stati Uniti. Il self-made man odierno sembra ormai rappresentato da colui che conta solo sulla sua capacità imprenditoriale, il suo talento e la sua abnegazione e non ha bisogno d’altro, se non di completa libertà d’azione. Indivisualista convinto e acerrimo acerrimo di lacci e lacciuoli, detesta i sussidi governativi e sembrerebbe l’anti-statalista per eccellenza. O almeno così oggi si dipinge.
Aiuti pubblici: male, anzi benissimo
Un esempio attualissimo di questa concezione contemporanea del self-made man – ormai lontana anni luce rispetto a quella di Benjamin Franklin – potrebbe essere rappresentato da Elon Musk. Le sue condizioni di partenza – almeno quelle economiche – non erano sicuramente di indigenza. Il divorzio dei suoi genitori, il carattere difficile del padre e il pesante bullismo subìto a scuola sono fattori che avrebbero potuto tagliargli le gambe e che Musk ha invece superato. Pur essendo dotato di una indiscutibile intelligenza e pur ammettendo che abbia perseguito i suoi scopi con una tenacia ferrea, il fatto che ce l’abbia fatta da solo, arricchendosi unicamente grazie alle proprie capacità di muoversi nel libero mercato, senza aver bisogno di finanziamenti o appalti pubblici, sembra reggere poco. Leonardo Bianchi, in un articolo per Valigia blu, ha analizzato come il miliardario alla guida del DOGE abbia invece nei contratti pubblici una delle fonti primarie della propria ricchezza:
Tuttavia, secondo un’inchiesta del Washington Post condotta da un team di giornalisti, lo stesso impero economico dell’uomo più ricco del mondo si è sviluppato attraverso il sostegno di almeno 38 miliardi provenienti da contratti governativi, prestiti agevolati, sussidi e crediti fiscali. Aiuti pubblici che hanno avuto un ruolo cruciale nella crescita delle aziende di Musk. Le prime tracce di questi finanziamenti, scrivono i giornalisti del Washington Post, risalgono a più di 20 anni fa.
L’articolo prende in esame il caso emblematico di Tesla, mostrando poi come altre aziende di Musk – da Space X a X Corp – abbiano prosperato e prosperino grazie a contratti di questo tipo: leggetelo tutto, è un ottima fonte di informazioni per capire il lato statalista, poco conosciuto, del padrone di X.
La pigrizia, l’immoralità e altri stereotipi
Un altro esempio vivente utile a sfatare il mito del farcela da soli tira in ballo l’attuale vice-presidente degli Stati Uniti, J.D. Vance. “Il mito per cui J.D. Vance è arrivato sulla alla vetta con le proprie forze” è il titolo di un articolo pubblicato sul Times a luglio dell’anno scorso: l’autrice è la scrittrice Bobi Conn che ha mostrato come l’ascesa di Vance alle massime cariche dello stato non sia avvenuta solo perché ha saputo smarcarsi e superare una situazione di partenza difficile e dolorosa. Conn è nata nel Kentucky, nel cuore dell’Appalachia e, come Vance, e ha alle spalle una famiglia afflitta da gravi problemi di dipendenze, violenza domestica, povertà e disagio mentale. La scrittrice ricorda a Vance come entrambi abbiano potuto studiare grazie a borse di studio pagate da altri:
…mentre il suo memoir ha trovato eco nei lettori per la sua narrazione tipicamente americana di un self-made man, la realtà è che Vance non è arrivato fin qui da solo. Ce l’ha fatta grazie alle politiche e ai programmi che supportano la classe operaia. Infatti, è una delle poche cose che io e lui abbiamo in comune. Ho potuto frequentare il Berea College, un college gratuito qui nel Kentucky orientale dove ogni studente lavora e che ha lo scopo dichiarato di dare un’istruzione superiore agli abitanti degli Appalachi con un basso reddito, proprio come ha istruito uomini e donne, neri e bianchi, fino dal 1855, anno della sua fondazione. Vance ha frequentato la Yale Law School con una generosa borsa di studio, un vantaggio che alcune delle migliori scuole della nostra nazione offrono agli studenti con un reddito basso.
Il memoir di cui parla Conn è “Elegia americana”: pubblicato nel 2016, è il libro autobiografico della giovinezza di Vance a Middletown, in Ohio, e della storia della sua famiglia, originaria del Kentucky, contea di Breathitt, negli Appalachi. Vi si racconta di come a causa della pesante tossicodipendenza della madre, Vance sia stato cresciuto dai nonni – anche loro con problemi di alcolismo – riuscendo grazie ai propri sforzi a studiare, laurearsi in legge a Yale per poi arruolarsi nei Marines. Citando ancora Bobi Conn:
Vance nelle sue memorie ha contribuito a perpetuare gli stereotipi sui “poveri pigri” quando ha parlato della sua frustrazione per aver scoperto, a 17 anni, che ci sono adulti che ricevono il sussidio che osano possedere cellulari e acquistare cose che i buoni pasto non coprono (alcol e sigarette, per esempio). Tuttavia, sembra essere consapevole anche di un altro punto che è fondamentale per questa discussione, sebbene non sia un argomento popolare nel discorso politico: le nostre scelte sono plasmate dalla nostra cultura e nessuna delle questioni di classe che critica può o dovrebbe essere attribuita all’immoralità.
La descrizione che ha dato della popolazione mi fa davvero arrabbiare. Non ha menzionato la povertà strutturale. Non ha descritto la storia di questa regione. È stata una auto-esaltazione della grandezza del risultato personale raggiunto. È l’esaltazione del farcela da soli (bootstrapping): sì, ho frequentato uno dei college dell’Ivy League e, se lavori duramente, puoi farcela anche tu. Ma in realtà, e questa è la cosa più straziante, è che non ha fatto altro che confermare gli stereotipi sull’Appalachia.
Significativo, infine, “Appalachian Reckoning: A Region Responds to Hillbilly Elegy”, un libro che è una vera e propria reazione collettiva al libro di Vance, oltre che una testimonianza della vitalità intellettuale e delle possibilità di sviluppo presenti e attive nella regione appalachiana.
L’Appalachia è una regione da sempre trattata come una colonia interna da sfruttare al massimo: dalle compagnie minerarie che ne hanno fatto la loro terra di conquista – i minatori venivano pagati con monete coniate direttamente dalle compagnie che potevano essere spesi solo nei negozi e nell’affitto delle abitazioni, entrambe di proprietà delle coal companies – a quelle farmaceutiche che qui hanno sperimentato l’ossicodone, causando la più grande e letale crisi degli oppiodi di tutti gli Stati Uniti. E la soluzione per l’Appalachia sarebbe, secondo Vance, quella di farcela da sola: bootstrapping, tirarsi su dai propri stivali, un’espressione che arriva dal barone di Münchhausen che racconta di essersi salvato dall’affondare in una palude tirandosi su con le cinghie dei propri stivali. Un personaggio che aveva ironicamente nel proprio stemma il motto “Mendace veritas”.
Finisco con un’ultima considerazione sul mito dell’uomo che si è fatto da solo e sul prezzo che spesso questo comporta, in special modo sugli effetti collaterali che ci si lascia dietro quando – più che una legittima aspirazione a emanciparsi da una condizione di miseria – si persegue con cieca spietatezza la ricchezza e il successo ad ogni costo. Mi viene in mente l’ultima strofa de “L’odore” di Giorgio Gaber e Sandro Luporini:
Io che conosco tanta gente son venuto su dal niente c’ho una bella posizione non è giusto che la perda mi son fatto tutto da me mi son fatto tutto da me mi son fatto tutto da me. Mi son fatto tutto di merda.
Qualche giorno fa mi imbatto in un canale YouTube che sforna una decina di video al giorno, quasi tutti riguardanti la storia americana. La durata varia dai 5 minuti alla mezz’ora. La prima cosa che mi viene in mente, dopo aver visto lo stile grafico delle miniature dei singoli video, è che si tratti di contenuti prodotti da un’intelligenza artificiale generativa. Per averne conferma, clicco sul link delle informazioni del canale, ma non trovo niente: l’unico dato a disposizione è la Georgia – quella negli USA – come paese di provenienza. Su chi sia l’autore e sui motivi che lo spingono a produrre questi video non si riesce a sapere nulla. Il canale si chiama Unreal History e nel momento in cui sto scrivendo sta pubblicando un nuovo video ogni tre ore.
Un video di fact-checking
Sbollita la rabbia e svanito lo sconforto che mi erano presi – perché per un mio video che vorrei pubblicare sono dieci giorni che ci sto lavorando di notte – trovo, attraverso una ricerca su Bluesky, un post di Kevin M. Levin, storico e insegnante di Boston, esperto di guerra civile americana che sul suo blog – o meglio sul suo profilo Subastack* – ha scritto del canale “Unreal History” e ha analizzato uno dei 1.200 e passa video pubblicati: “The Forgotten Monument: The Unfulfilled Promise of Black Civil War Heroes”. L’argomento del video analizzato è la memoria della guerra civile americana e, in particolare, un monumento, mai realizzato, che avrebbe dovuto ricordare il consistente contributo dato dalle truppe di soldati neri alla vittoria degli unionisti sui confederati. Il video vuole ricostruire le vicende del veterano nero nel tentativo divedere realizzato questo monumento a Washington D.C..
Il professor Levin ha pubblicato un video di una mezz’ora in cui, prima di tutto, ricostruisce la genesi di “Unreal History”: si tratta, come avevo intuito, di un canale dai contenuti interamente creati da un’intelligenza artificiale generativa. La pagina web che ospita le informazioni a riguardo credo sia a sua volta generata da una AI. Questa la descrizione fornita – traduzione mia:
“Unreal History” è una piattaforma interattiva unica progettata per reimmaginare e visualizzare eventi storici in contesti contemporanei, mescolando il passato con la tecnologia moderna e le norme sociali (sic). Questo viaggio immaginario è reso possibile da una dettagliata creazione narrativa e da immagini visive, trasportando gli utenti in linee temporali storiche alternative in cui gli eventi hanno preso una piega diversa.
Al di là di ogni considerazione sull’utilità o l’importanza di uno strumento simile, nessuna di queste informazioni compare sul canale YouTube di “Unreal History”, così come non esiste nessun link alla pagina dell’intelligenza artificiale usata. Il rischio che chi fruisce di questi video non abbia la voglia o la capacità di cercare sulla Rete più informazioni credo sia molto alto. E questa non è una buona cosa, almeno secondo me.
Venendo al video analizzato, Kevin M. Levin mette in evidenza un errore marchiano già nei primi trenta secondi: per l’AI, il nome del protagonista, il veterano che si battè per la costruzione del monumento, sarebbe William Carney Williams. Solo che non esiste una persona che si chiama così. Questo nome, a chi studia la storia della guerra civile americana, ricorda quello di William Carney, soldato nero famoso per aver salvato la bandiera del suo reggimento nella seconda battaglia di Fort Wagner nel 1863 quando, anche se le forze dell’Unione furono sconfitte, Carney per quel gesto fu insignito della Medaglia d’onore, la più alta onorificenza miltare negli Stati Uniti. Sicuramente un personaggio importante, ma che non si è mai battuto per erigere il momumento in questione. Il nome del veterano nero che invece, a fine guerra, si adoperò per la costruzione del monumento è George Washington Williams, soldato dell’Unione, poi avvocato, giornalista, ministro della chiesa battista, storico e autore del primo libro sul contingente nero attivo nella guerra di secessione. In somma: sembra che l’AI abbia operato una sorta di crasi tra i due nomi in questione, inventandosene un terzo che però non è mai esisitito. Essendo il nome del protagonista della vicenda, non è proprio un errore marginale.
Abbagli visivi e scelta delle fonti
Non vado oltre nell’esporre le altre imprecisioni storiche che il video contiene, per chi vuole scoprirle tutte rimando all’utilissimo fact-checking del video del professor Levin. Le due cose che voglio sottolineare riguardano la parte visiva e il senso generale della narrazione. Per quanto riguarda la prima: l’AI, a corredo della narrazione e della voce off che la porta avanti, mostra una serie di immagini totamente inventate che, la maggior parte delle volte, sono inaccurate o molto fantasiose, per rimanere gentili. Alcune volte poi saltano fuori quelle che si chiamano allucinazioni, veri e propri svarioni dell’intelligenza artificiale che produce risultati inaccurati, anacronistici o semplicemente assurdi. Anche se esiste una soddisfacente collezione di fotografie autentiche della guerra di secessione, nel caso di questo video, l’AI non ne ha tenuto conto e ha inventato da zero immagini e situazioni che in diversi casi sono fuorvianti o puramente ridicole come nei due frame riportati qui sotto.
Un animale alquanto bislacco e un mitra parecchio anacronistico
Una bandiera americana inusuale e uniformi di un altro secolo
L’altra considerazione è sulla narrazione: secondo Levin la narrazione generale non è sballata, il racconto è tutto sommato ragionevole, sono presenti citazioni che sono corrette e ben poste. Per chi si interessa e studia la guerra civile americana, però, si evince con facilità che tipo di domande (prompt) e parole chiave sono state poste all’intelligenza artificiale che, nel suo successivo scandagliare siti e fonti, ha scelto quelli ritenuti più popolari. Per Levin e per chi studia questa materia, è facile riconoscere nel racconto di questo video le tesi di “Race and Reunion”, un libro dello storico americano David W. Blight che descrive come la rimozione della parte afro-americana e l’attenuazione e la minimizzazione del tema centrale della schiavitù siano stati volutamente usati per poter arrivare a una riconciliazione (reunion) tra Nord e Sud, ridipingendo in questo modo la guerra civile come un conflitto tra due schieramenti di soldati bianchi in lotta solo per la gloria e il valore militare. In “Race and Reunion” Blight ricorda come, per esempio, teorie negazioniste come quella della “Lost Cause” abbiano avuto per decenni una diffusione e un’influenza enorme, penetrando nella cultura, nei racconti e nei manuali di storia degli Stati Uniti del Sud.
Kevin M. Levin ci dice che il libro di David Blight è un’opera validissima, è il libro da cui partire per studiare l’argomento – ho scoperto che si è meritatamente aggiudicato il Frederick Douglass Book Prize per il miglior libro sulla schiavitù – ma è un’opera uscita nel 2001, quasi venticinque anni fa. Nel frattempo la letteratura sull’argomento si è arricchita di numerosi altri contributi. Altri studiosi e studiose hanno ampliato, rivisto e aggiornato analisi e ipotesi sia sulla riconciliazione, sia sulla cancellazione della memoria dei soldati neri. Di questa ricchezza della letteratura e della ricerca storica però l’intelligenza artificiale non ha tenuto conto, limitandosi a proporre la narrazione più diffusa sull’argomento. Questo non è avvenuto certo per colpa sua, ma perché chi ha posto le domande non ha ritenuto opportuno cercare e includere queste nuove fonti.
Questo post, voglio dirlo chiaramente, non è un atto d’accusa né tanto meno una demonizzazione delle intelligenze artificiali generative usate a fine di divulgazione storica. Questi strumenti possono essere molto utili, bisogna tuttavia vedere come vengono usati e per quali scopi. Quelli del canale in questione, a pensare male e vista la freqenza di pubblicazione, mi sembrano molto orientati a fare numeri, sia come visualizzazioni sia come abbonati. L’accuratezza e la trasparenza delle fonti mi sembrano lasciate in secondo piano. Faccio un esempio concreto: se la fonte principale usata per il racconto della guerra civile è il succitato libro di David Blight, non sarebbe stato utile e onesto inserirlo dentro i titoli di coda del video o lasciarne traccia nella descrizione? Prima ancora di questo, come già detto, il non scrivere nel proprio canale che si tratta di video interamente generati da AI mina fortemente l’autenticità della fonte e la sua attendibilità. E la responsabiltà di questa scelta è totalmente umana. È un discorso ripreso anche da Levin nella parte finale del suo video che cito, traducendolo al volo:
Questo è un chiaro promemoria del fatto che abbiamo davvero bisogno di dedicare un po’ di tempo, tutti noi, a pensare a quali fonti affidarci e perché. E penso che valga soprattutto per i nostri studenti. […] Se sei un insegnante, fai il possibile per aiutare i tuoi studenti a navigare su Internet. E ancora, come consumatori di storia, come consumatori di informazioni, stiamo attenti (let’s be vigilant – in originale). Perché qui stiamo parlando di che cosa significhi essere cittadini: viviamo in una democrazia e le democrazie prospererano solo quando riusciamo a raggiungere una sorta di accordo su cosa è affidabile e quali sono sono le informazioni degne di fiducia.
Un sano scetticismo anche di fronte alla magia dell’animazione
Munirsi di un sano scetticismo e di pensiero critico – per usare ancora le parole di Levin – ci aiuta nelle esplorazioni online nel verificare quello che, tra le millemila fonti digitali a nostra disposizione, leggiamo, ascoltiamo o vediamo,. E, a proposito di vedere, voglio chiudere questo post citando brevemente un altro canale YouTube scoperto in un altro post del professor Levin, ancora sulla guerra civile americana, ancora sull’intelligenza artificiale generativa: si chiama History in Motion. A differenza di “Unreal History”, questo canale dichiara l’uso dell’intelligenza artificiale per rendere animate alcune fotografie scattate in tempi in cui non esistevano le immagini in movimento. L’effetto finale è impressionante: in “Veterans Brought to Life | American Civil War” si osservano, seppur per pochi secondi, veterani unionisti della guerra civile americana mentre si stringono la mano, oppure tre prigionieri confederati parlare tra loro mentre aspettano di essere trasferiti in un campo di prigionia. O, ancora, un gruppo di soldati neri allineati in attesa di una foto o di partire per il fronte. Lo scopo, in questo caso, è puramente emotivo, non c’è nessun tipo di ricostruzione storica da raccontare, le immagini non sono inventate ma sono tratte da quelle originali. Grazie a una magia resa possibile da algoritmi complessi e reti neurali, acquistano una nuova dimensione capace di restituire momenti storici reali in un modo fluido colorizzato, vivo.
Anche in questo caso, come direbbe Kevin M. Levin, “esiste una linea sottile tra i miglioramenti che ci aiutano a esplorare fotografie come queste in modo più approfondito e creativo e i modi che trasformano la storia in pura finzione.” Sta sempre al nostro sano scetticismo e alla nostra capacità critica saper trovare la strada giusta per muoverci nel “brave new world” dell’intelligenza artificiale. Non abbiamo altra scelta: le AI generative non faranno che migliorare nella verosimiglianza e nelle loro capacità, a noi il compito di saperne fare un buon uso.
* su questa cosa che molti blog chiudono o vengono sospesi perché chi li scrive lancia una propria newsletter e si trasferisce su Substack è un po’ di tempo che vorrei scriverci qualcosa. Siccome seguo molte persone che prima scrivevano su un blog e adesso lo fanno lì, se trovo il tempo di chiedergli il motivo, ci faccio un post.
Qualche anno fa Yancey Strickler – uno dei co-fondatori di Kickstarter – descrisse, prima in una e-mail inviata a 500 persone e poi sul proprio blog, quella che chiamò la teoria della foresta oscura di Internet . Partendo dal romanzo di fantascienza di Liu Cixin, “Il problema dei tre corpi”, Strickley analizzò lo stato del Web nel 2019 per spiegare alcune sue decisioni e condividere e i suoi dubbi. Ne traduco al volo qualche paragrafo:
Immaginati una foresta di notte. Nulla si muove, niente si agita. Questo potrebbe indurre a pensare che la foresta sia vuota, senza tracce di vita. Ma, ovviamente, non è così. La foresta pullula di vita. È silenziosa perché è notte, il tempo in cui escono i predatori. Per sopravvivere gli animali rimangono in silenzio. Il nostro universo è una foresta vuota o oscura? Se è una foresta oscura allora solo la Terra è abbastanza stupida da inviare messaggi verso il cielo per annunciare la propria presenza. Il resto dell’universo conosce già il vero motivo per il quale la foresta rimane oscura. È solo una questione di tempo prima che anche il nostro pianeta lo comprenda. Questo è anche ciò che Internet sta diventando: una foresta oscura. Come risposta alla pubblicità, al tracciamento, al trolling e a altri comportamenti predatori ci stiamo ritirando nelle nostre foreste oscure, lontano dal mainstream. […] L’Internet di oggi è un campo di battaglia. L’idealismo degli anni ’90 è svanito. L’utopia del Web 2.0 – quella in cui vivevamo nelle nostre bolle smussate e felici – è terminata con le elezioni presidenziali del 2016 quando abbiamo compreso che gli strumenti che consideravamo vitali potevano essere usati come armi. Gli spazi pubblici e semi-pubblici che avevamo costruito per sviluppare le nostre identità e comunità, e acquisire conoscenze, sono stati sorpassati da forze interessate a usarli per ottenere potere di vario tipo (di mercato, politico, sociale etc.) Questa è l’attuale atmosfera del Web mainstream: un’incessante competizione per il potere. Mentre questa aumenta sia di dimensione sia in ferocia, un numero sempre maggiore di persone ha trovato rifugio nelle proprie foreste oscure, lontano dalla mischia.
La sua decisione, per non cadere vittima dei predatori notturni, fu drastica: abbandonare tutti i social network, rimuovendo anche le app dallo smartphone e escludendosi totalmente dal magmatico flusso di conversazioni. Smise anche di guardare la televisione e si ritirò nelle foreste oscure: le e-mail, i podcast e le newsletter; ambienti, secondo Strickler, in cui sentirsi più al sicuro, dove si può esporre con molto meno timore il vero sé. Altre persone seguirono lo stesso metodo, come una generazione di moderni aspiranti monaci. Dopo un po’ di tempo, seppur realizzando come il suo benessere personale fosse molto migliorato, Strickler iniziò a avere dubbi sulla propria scelta. Coniò una seconda teoria – la teoria della pista da bowling di Internet – secondo la quale le persone stanno sulla Rete semplicemente per incontrarsi e, a lungo andare, i luoghi dove si incontrano non sono più importanti perché sono le interazioni che si sviluppano a essere la motivazione principale della propria presenza. L’analogia con il bowling è basata sul fatto che non tutte le persone che vanno a tirare giù birilli, mettendo a repentaglio il proprio metcarpo, lo fanno perché gli piace, ma perché è un modo per stare con altre persone. Un altro dubbio che Strickler mise nero su bianco è che, se una parte consistente di popolazione online avesse abbandonato le piattaforme, ciò avrebbe lasciato comunque una vasta platea influenzabile da coloro che sarebbero rimasti, limitando anche la capacità di interazione e influenza di chi aveva deciso di lasciarle. La frase che conclude il post è questa:
Se la foresta oscura non è già un luogo pericoloso, questi abbandoni potrebbero fare in modo che lo diventi davvero.
Sono passati più di cinque anni da quel post e la teoria della foresta oscura ha suscitato riflessioni, approfondimenti e critiche, diventando anche un libro di carta. I social network nel frattempo si sono smerdati molto e i passaggi proprietari e i cambi di policy degli ultimi mesi hanno sicuramente peggiorato la situazione. I dubbi di Strickler appaiono, almeno per me, ancora validi, ma hanno perso molto della loro valenza proprio per la situazione in cui versano le principali piattaforme social: se il significato e il tono delle piattaforme cambiano a seconda di chi le usa e che genere di bowlingviene fuori dipende da chi ci va, siamo al punto in cui la pista è volutamente preparata per giocatori a cui interessa più sopraffare totalmente gli avversari che non fare due chiacchiere o raccontarsi storie aspettando il proprio turno. Con gran soddisfazione dei proprietari del bowling che se la ridono dall’alto.
Ora: se siete arrivati/e a leggere fino a qui, oltre a ringraziarvi di cuore, è giunto il momento di svelare il motivo principale per cui ho voluto spendere tutte queste parole: credo che tra i luoghi protetti dai predatori della foresta oscura ci siano anche i siti web personali e i blog. Lo ha creduto anche Maggie Appleton che, in un’ottima rappresentazione grafica del Web, ha messo i feed rss allo stesso livello di newsletter e e-mail. Blog e siti web fanno parte di quel sottobosco, humus vivo e pulsante, ma poco visibile e poco collegato. Per questo ho pensato che ci sarebbe stato bisogno di sentieri, piccoli viottoli anche sotterranei, o vie del tabacco sabbiose e strette, che unissero queste realtà senza per forza passare dalle piattaforme che, appollaiate sui rami più alti, osservano e estraggono dati da chi si avventura dalla loro parti.
Per questo motivo è nato Lit/Ring, un webring dedicato ai libri e alla letteratura, un modo antico di collegare tra loro autori e autrici che sui propri siti e blog scrivono recensioni, pubblicano le loro opere o approfondiscono e portano avanti discussioni sulla scrittura, la lettura e la letteratura in generale. Non è di sicuro la killer application che rivoluziona il gioco, non ha la pretesa di sostituire le piattaforme: è solo un modo diverso di esplorare i contenuti della Rete, affidandosi non più a un algoritmo bensì a a un tocco umano, capace anche di sbagliare, ma anche di collegare mosso da motivazioni diverse dal dover fare numeri, accumulare like o sentirsi il signore o la signore del blastaggio. Leggetene meglio sul suo sito – o ring hub – quando avete tempo. E provatelo: cliccando sulle frecce dei banner che trovate sui siti aderenti potete farvi un giro completo dell’anello composto dalle persone che finora hanno aderito e, se scrivete su un blog o o un sito vostro (anche) di libri e letteratura, contattateci se volete farne parte. È gratis e non vi serve a nient’altro che un po’ di tempo. Forse così le foreste potrebbero essere meno oscure.
[piccola nota personale: quando ho letto la prima volta il post della teoria della foresta oscura mi sono ricordato che la stessa metafora l’avevo usata quattro anni prima per un seminario sulla selva dei social network. Era ancora un bosco e non ancora una foresta e le parti pericolose ancora non esistevano o erano piccole piante ancora a livello di sottobosco. O ero io che non volevo o sapevo vederle.]
Premessa: l’immagine di questo post è un falso. È un rozzo fotomontaggio che ho creato manualmente, innestando le teste di Sergey Brin e Larry Page, i fondatori di Google, su quelle di Luca Marinelli e Alessandro Borghi, i due attori protagonisti di “Non essere cattivo”, l’ultimo film che è riuscito a fare il grande Claudio Caligari. Lo scrivo perché in questo post si parla anche di intelligenza arificiale e non vorrei che si prendesse come opera di Midjourney o di altre AI generative nemmeno una frazione di questi bit.
“Don’t be evil” è stato il motto del Codice di condotta aziendale di Google dal 2000 fino al 2018:
“Non essere cattivo”. I Googler in genere applicano queste parole al modo in cui trattiamo i nostri utenti. Ma “Non essere cattivo” è molto più di questo. Sì, si tratta di fornire ai nostri utenti un accesso imparziale alle informazioni, concentrandosi sulle loro esigenze e offrendogli i migliori prodotti e servizi che possiamo. Ma si tratta anche, in generale, di fare la cosa giusta: rispettare la legge, comportarsi in modo onorevole e trattare i colleghi con cortesia e rispetto. (testo recuperato via Wayback Machine | Internet Archive)
L’arrivo di Google sul Web agli inizi degli anni Zero sconvolse il modo di navigare e scoprire contenuti. L’algoritmo che permise questo si chiamava PageRank: ricordo ancora i bannerini che si potevano scaricare e apporre su siti e blog dopo aver testato sul motore di ricerca la loro posizione – il ranking – che ottenevi a seconda di quanti siti ti linkavano e da come questi venivano reputati. Il servizio non esiste più, ma se avete voglia di vedere come funzionava e quali erano i punteggi congelati al momento della sua scomparsa, potete provarlo qui. La cosa bella di Google degli esordi era il fatto che aveva come scopo quello di farti rimanere il meno possibile sulle proprie pagine perché questo significava che la tua ricerca aveva ottenuto in poco tempo il risultato desiderato e potevi continuare la tua navigazione. L’affidabilità dei risultati fu il motivo principale del suo uso e del suo impetuoso successo. In pochi anni Google ottenne il monopolio nel campo delle ricerche online: Altavista, Yahoo, Lycos, Excite, Arianna e Virgilio, per menzionarne solo alcuni internazionali e un paio italiani, divennero sempre meno usati e scomparvero o furono acquisiti cambiando lo scopo principale della loro esistenza.
Poi su Google arrivò la pubblicità, ormai vettore principale di molte attività del Web; arrivò il SEO con le relative linee guida che portò alla produzioni di contenuti mirati, nella maggior parte dei casi, a ottenere un ottimo posizionamento nelle ricerche al fine di generare più traffico e più introiti, spesso al di là della bontà e dell’accuratezza dei contenuti. Da qui in poi è tutta una storia che è l’esatto inverso del Google delle origini: la comparsa di ritagli speciali – i cosiddetti “featured snippet” – stridono enormemente con il fatto che dovresti lasciare il motore di ricerca il prima possibile. Questi estratti di contenuti sovrastano tutti i risultati sottostanti – la cosidetta posizione zero – perché sono già risposte alla domanda che si pone al motore di ricerca e l’erosione dei click alle fonti è diventato una delle conseguenze principali di questo nuovo tipo di interfaccia. È un po’ come se Google ti dicesse: non importa che tu vada sul sito dal quale abbiamo preso questa riposta – anche se l’url della fonte viene comunque menzionato – il succo della risposta te l’ho già messo a disposizione qui sopra, lascia perdere e continua a rimanere sulle nostre pagine.
E arriviamo molto, forse troppo sinteticamene a oggi e all’intelligenza artificiale. Con l’arrivo di ChatGPT e dei suoi simili credo che il motore di ricerca di Brin e Page si stia trovando a fare i conti, dopo anni di dominio quasi assoluto, con concorrenti che possono rivelarsi molto ostici. E così ha cercato di integrare l’intelligenza artificiale nel proprio sistema di ricerca con risultati che, fino a pochi mesi fa, sono risultati spesso imbarazzanti se non proprio pericolosi. Vi sarà capitato di incappare in qualche post, meme o articolo che prendeva in giro le allucinanti risposte di AI Overviews alle domande su quante pietre si dovessero mangiare al giorno (una sola, grazie) o su come riuscire a non far staccare la mozzarella dalla pizza (aggiungi della colla e sei a posto). Rusty Foster ha chiamato questo meccanismo plagio automatizzato: “Google estrae informazioni da pagine vagamente correlate riformulandole leggermente per occultarne la fonte. Ecco quello che fa. Plagio su larga scala senza nessuna comprensione dell’applicabilità delle informazioni. Sta facendo fracking nel Web.”
Sono sicuro che le ricerche attraverso l’intelligenza artificiale di Google e degli altri search engine miglioreranno e che a Mountain View stanno alacremente lavorando per rimuovere le risposte bislacche sopramenzionate. Quello che invece continua a preoccuparmi è il motivo principale per cui ho scritto questo post. Che arriva da un video dal titolo estremo e cattivissimo: “Generative AI is a Parasitic Cancer” ossia “L’intelligenza artificiale generativa è un cancro parassita”. Lo trovate su YouTube e l’ha creato Freya Holmér.
Freya per lavoro si occupa di strumenti di modellazione 3d per sviluppatori di videogame e stava cercando informazioni su un tipo particolare di file chiamati .glb. Analizzando la prima pagina di risultati di Googel è venuto fuori che la quasi totalità dei risultati sono contenuti generati da intelligenza artificiale. Sono per la maggior parte siti che hanno utilizzato l’intelligenza artificiale generativa per creare testi che presentano sia errori grammaticali e refusi, ma che specialmente hanno la struttura, le ripetizioni e una lunghezza ingiustificata che un editore umano difficilmente pubblicherebbe. Forse alcuni di questi potrebbero essere stati creati da quelle che si chiamano content farm che però, a loro volta, potrebbero aver usato AI generative. E questo tipo di risultati non si ottiene soltanto usando Google: Freya ha fatto la stessa ricerca su Duck Duck e su Bing (che usa l’intelligenza artificiale per le sue ricerche): i risultati sono quasi identici. L’80% della prima pagina di risultati è prodotto da intelligenza artificiale. E così non si può che condividere il suo senso di frustrazione per come si stia inondando Internet di spazzatura e per come per trovare qualcosa scritto da umani, da persone che ci tengono realmente a ciò che pubblicano, si debba fare uno sforzo enorme, spesso rifiutando la comodità dei motori di ricerca che considerano attendibili fonti solo per motivi pubblicitari. Freya, nella parte finale del video, dice esplicitamente che “se il futuro dell’arte, se il futuro dei contenuti online è generarli con l’intelligenza artificiale, penso che questo sia una perdita significativa per l’umanità. Il problema con l’intelligenza artificiale generativa è che non ha nulla dell’umanità, nulla delle storie umane che raccontiamo.” È il rischio di cui scrive Casey Newton quando afferma che con i risultati di ricerca basati sull’intelligenza artificiale resi disponibili alla massa dei navigatori, il web basato sull’umanità passa sempre più sullo sfondo:
E il nuovo slogan “Lascia che Google faccia Google per te” è una frase che etichetta il navigare sul web – un tempo un’attività divertente tanto da meritarsi il soprannome di “surfing” – come qualcosa di ingrato e noioso, qualcosa che è meglio lasciare a un bot. […] Negli ultimi venticinque anni, Google si è estesa in così tante parti diverse del Web da diventarne quasi un sinonimo. E ora che gli LLM promettono di far capire agli utenti tutto ciò che il Web contiene in tempo reale, Google ha finalmente ciò di cui ha bisogno per finire il lavoro: sostituire Internet con se stesso.
Ecco, di fronte a questo possibile scenario verrebbe da rammentare a Google quando prometteva di non essere cattivo. Perché la risposta potrebbe essere un piano B che non prevede la sua presenza. Almeno da parte di chi dal traffico di Internet trae il suo sostentamento o non vuole un Web in cui leggere le risposte alle proprie ricerche direttamente sulle sue pagine, senza preoccuparsi da dove arrivino. Se solo arrivasse il giorno in cui troveremo la forza e il coraggio di unirci come non avviene da molti anni. Se solo. Se.
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