La mi’ nonna Rosa era del sette. Del millenovecentosette.
Nella campagna della provincia pisana che già occhieggia la parlata fiorentina ha vissuto due guerre mondiali: la prima da bambina, la seconda da adulta, già madre di tre figli.
Quando le chiedevo della seconda guerra mondiale, nonna Rosa non diceva mai la guerra, ma il passaggio della guerra, un’espressione che mi affascinava e allo stesso tempo mi inquietava perché immaginavo la guerra come un’ombra enorme, tipo quella di un grosso rapace o di un cielo nero di cavallette, capace di spostarsi autonomamente e con un grado di imprevedibilità molto alto.
Malgrado la tinta fosca con cui li ricoloravo nella mia fantasia, i suoi racconti del millenovecentoquarantatrè e quarantaquattro erano semplici e umani.
Nonostante sgorgassero da ricordi di vicende accadute quarant’anni prima, erano rimasti vividi, la radice ben piantata nella memoria. A poco meno di quaranta anni, una situazione enormemente pericolosa le era arrivata proprio sotto la soglia di casa, in quel pezzo di Toscana dove viveva, e dove ora figli, parenti e amici rischiavano di morire, di essere catturati o – come minimo – di rimanere brutalizzati da tutto quello che stava accadendo intorno.
Parliamo di cannonate, tetti sfondati e bestie scappate, duelli aerei, soldati per le strade e nei boschi, ordini secchi in lingue mai sentite, corse in cantina, fascisti e partigiani che si sparavano ai crocicchi di campagna, piloti della RAF abbattuti e nascosti nei fienili. Parliamo di coprifuoco, rappresaglie, requisizioni forzate, rifugi scavati nel tufo, puzzo di piscio e urla di bimbetti, morti di malattie e gorgoglii di fame.
E gli sfollati.
Con il passaggio della guerra, mia nonna aveva fatto conoscenza con la parola sfollati: aveva incontrato e aiutato persone che, con la morte nel cuore e poco nello stomaco, avevano deciso di lasciare la loro casa a Pisa o nei paesi vicini, e con quel che potevano permettersi di portarsi dietro, erano fuggite nelle periferie e nelle campagne, sperando, prima di tutto, di salvare la vita. Persone fragili, provate ma ancora vive, che scappavano e cercavano un riparo: donne, bimbi e vecchi, per lo più. Qualcuno più istruito, qualcuno analfabeta, tutti in estremo pericolo, come lei.
Anzi, gli sfollati erano messi anche peggio di lei perché avevano perso, e non si sa per quanto, gli appigli e i facili approdi garantiti dai gesti semplici della vita quotidiana: dove sta la bottiglia dell’acqua, le finestre delle camere da aprire, la melassa del pomeriggio estivo sulla sedia di fronte all’uscio, cercando uno spicchio di bacìo o un po’ di riscontro. Tutte situazioni e tempi apparentemente insignificanti, ma capaci di addomesticare e smussare l’aguzza imprevedibilità del domani. Tutto sparito – gesti, oggetti, abitudini – con il passaggio della guerra.
La cosa che accomunava di più mia nonna e gli sfollati non era l’essere italiani, toscani, pisani, della Valdera o del Valdarno, ma l’essere in balìa di un evento enorme, covato in anni in cui i miei nonni e tanti altri non erano stati in grado – non avevano voluto o non gli era stato permesso – di immaginare una disgrazia come quella.
Il fascismo le aveva portato la guerra in casa, e con lei erano arrivati anche la miseria e la paura. Bloccata in quelle situazione, per mia nonna non contava più se venivi da Pontedera o da Montefoscoli, da Berlino o dal Kentucky, l’importante era salvare la pelle, capire da che parte arrivava la pace e provare a arrivarci il prima possibile. Lì o altrove.
C’era un’altra cosa che la accomunava agli sfollati: entrambi possedevano poche cose, e nonostante fossero poche, erano totalmente a rischio di scomparire, sia per effetto delle cannonate dell’artiglieria americana che arrivavano dalle alture vicino Colleoli, sia di quelle della contraerea tedesca a pochi chilometri di distanza. Non potevano permettersi altro lusso che rimanere vivi, sfollati e non sfollati.
Credo sia per questi motivi che quando rammentava gli sfollati mia nonna ha sempre usato parole gentili e accoglienti: erano povera gente che arrivava nei suoi posti – poveri anche quelli – perché spinta da qualcosa di enorme, di inaffrontabile. Qualcosa da evitare, fossero le bombe in testa o i rastrellamenti casa per casa da parte di divise scure, coi teschi ricamati, che, retrocedendo verso la linea Gotica, bruciavano paesi e poderi. Adesso anche lei sapeva che non le piacevano, facevano del male alla terra e alle persone, un veleno che guastava i campi e accoppava raccolti, alberi e animali. Milioni di morti in Europa e nel mondo, anche lì da lei: faccia a faccia con la distruzione, con tre figli piccoli – mia zia di pochi mesi – e mio nonno portato via con i lavori forzati della Todt.
Nonna Rosa è morta nel 2001, nell’estate del G8 di Genova, negli anni zero di un secolo nato sulle macerie, Internet e i gas.
Gli sfollati – di allora e di adesso – credo provengano ancora dalla stessa parte: quella dei poveri, ossia quelli che muoiono quando i ricchi decidono di fare la guerra. Con le bombe o con la fame.
E oggi che siamo sfollati dentro le nostre case, a queste cose forse sarebbe da pensarci di più e meglio.