Sanguina ancora è un libro di Paolo Nori pubblicato da Mondadori

Io e loro

Ho finito di leggere “Sanguina ancora” il romanzo biografico scritto da Paolo Nori sull’incredibile vita di Fëdor Dostoevskij e è un gran bel libro. Nori mischia, con la consueta bravura, episodi della propria vita – chiamatela, se volete, autofiction, ma con la pronuncia alla francese – agli episodi più salienti del grande scrittore russo e il risultato è un’opera emozionante, in certe pagine commovente, come in pochi in Italia sanno fare. È vero che in certi momenti ti immagini i protagonisti di “Delitto e Castigo” parlare in emiliano, ma è un effetto che a me piace molto. Poi – molto di lato, lo so – mi piace anche il fatto che rammentato nel libro c’è anche Antonio Pennacchi, uno scrittore che ha fatto l’operaio per trent’anni e che purtroppo non c’è più. Ho letto le sue cose fin dai tempi di “Mammut” e “Palude”, i primi suoi due libri che, se non mi ricordo male, ho fatto leggere anche al mio amico Simone B. che fa l’operaio e il sindacalista della FIOM che è anche un lettore e che ultimamente, è uno delle persone più coraggiose e impegnate che conosco. Perché con i partiti, le facce e i padroni che sono in giro nella politica e nelle fabbriche di questi tempi, ha proprio una fibra di ferro a non mollare, a resistere e a continuare a leggere libri.
Poi, perché stasera è tardi e sono un po’ indebolito, voglio solo annotare qui una frase di “Sanguina ancora”, riportata molto giustamente anche nella quarta di copertina, che poi dovrebbe essere il succo di questo post che non è una recensione del libro di Nori, ma una riflessione sugli altri.
La frase in questione è:

“Io son poi da solo, e loro sono tutti.”
(Fëdor Dostoevskij, “Memorie dal sottosuolo” | Traduzione di Paolo Nori)

Anch’io, come Nori ha fatto con sua figlia quando aveva quindici anni, chiederò a mio figlio se ci ha mai pensato a questa frase e a questa cosa che si è da soli e gli altri sono tutti insieme e che Dostoevskij ha sintetizzato in maniera così magistrale e semplice più di centosessanta anni fa.

Nel frattempo queste parole mi tornano prepotentemente in testa le volte che mi capita di scorrere le storie di Instagram – di Tik Tok no: non ce l’ho e non ce la faccio a installarlo – e che mi sento sopraffatto dalla marea di video brevi che le migliaia di persone caricano quotidianamente online: io sono da solo e loro sono tutti. E postano. È qualcosa di molto più pesante della riflessione di Troisi sul fatto che “loro sono in tanti a scrivere e io uno solo a leggere” perché, rispetto ai libri, quella delle storie di Instagram o degli Shorts di YouTube è una produzione continua, incessante, fatta di unità piccole ma densissime che si accavallano l’una sull’altra, in una successione e un montaggio determinata unicamente dagli algoritmi.

E, infine, questa frase “Io son poi da solo, e loro sono tutti” stasera mi ha fatto venire in mente anche il verso di una canzone italiana molto famosa e chissà se il suo autore abbia mai pensato al Dosto e abbia voluto creare una versione femminile, più radiosa e meno incattivita e malata dell’uomo del sottosuolo pietroburghese:

“Tu sola dentro la stanza e tutto il mondo fuori.”
(Vasco Rossi, “Albachiara”)

Propagandhi - No Longer Young - Epitaph Records - video

La linea politica ora

Il traballante consiglio di fabbrica del mio cervello ha trovato una sintesi che esprime alla meno peggio la mia personalissima posizione e linea politica di questi ultimi anni.

Il consiglio di fabbrica del mio cervello è attualmente composto dall’ala dura e pura dei neuroni della memoria comunarda e da una frangia riformista vicina a certe sinapsi già in odore di socialdemocrazia.
Nella seduta di stanotte è stato votato all’unanimità, e quindi adottato come manifesto politico, il testo scritto dai Propagandhi per il loro singolo “No Longer Young”“Non più giovani”.

Detto brano – prontamente tradotto dalla commissione Esteri del consiglio – così dice:

Non seguirmi, non chiedermi dove sto andando.
Cade la notte, cambiano le stagioni e il tempo è freddo.

Potrebbe sembrare che mi sia perso. Sono solo qui fuori a cercare,
a rinfocolare lo spirito che avevo, ad andare avanti, non indietro.

La vita è in bilico, a questo punto che resta da dire?
Moriremo in un mondo ancora in guerra. Ci abbiamo provato davvero?

Potrebbe sembrare che mi sia perso. Sono solo qui fuori a cercare,
a rinfocolare lo spirito che avevo, ad andare avanti, non indietro.

Ho aspettato così a lungo, abbiamo aspettato così a lungo.
Non siamo più giovani.

Mi dispiace, amico mio, speravo di rivederti. Non ci sono eccezioni, tutti ritorniamo alla polvere.
Certo, siamo invisibili per la maggior parte del tempo. Ti terrò nei ricordi, ma è meglio dimenticarci col tempo.
Ho aspettato così a lungo, abbiamo aspettato così a lungo, non siamo più giovani.

Potrebbe sembrare che mi sia perso. Sono solo qui fuori a cercare,
a rinfocolare lo spirito che avevo, ad andare avanti, non indietro.

Ecco, questo siamo, questo per ora vogliamo.

Stormo - Delle Nostre Vite Appese

Vite appese, cerchi chiusi

Crolleranno le mura che chiamavamo affettuosamente casa.
Il vento porterà via l’instabile sabbia su cui poggiavamo saldamente i piedi.
Consumati dalle intemperie ci gireremo a guardare le brillanti macerie dei giorni passati.
– Stormo, “Delle Nostre Vite Appese”

Queste parole sono tratte da una canzone rimasta a impolverarsi in qualche sottoscala dei miei neuroni per un bel po’ di anni: forse il cervello, per una forma arcaica di difesa, le ha incastrate lì, in un luogo difficile da ritrovare per quanto mi erano rimbombate in testa nel gennaio dell’anno 2017, anche se la prima volta che lo avevo sentite risaliva a circa tre anni prima. In quel mese, la mia vita e quella della mia famiglia erano realmente appese: bloccate nella neve, crepate dalle scosse e in attesa di chissà che cosa.

Autori dei versi sono gli Stormo, uno dei gruppi punk hardcore che più ho apprezzato negli anni dieci di questo disperato nuovo millennio, che le aveva usate sia come parte finale della canzone citata sia per dare il titolo a “Sospesi nel vuoto, bruceremo in un attimo e il cerchio sarà chiuso”, un album che, per me, rimane tra le pietre d’angolo dell’hardcore italiano- o post-hardcore, fate voi.

È anche per questi motivi che ho voluto scrivere su Humans vs Robots di una nuova traccia uscita dalle feroci meningi degli Stormo: si chiama “Come Fauce Che Divora” e chiude il nuovo album del quartetto, uscito il primo giorno di primavera per Prosthetic Records.
Per liberare quelle parole dal sottoscala della memoria, affrontare le nuove intemperie e chiudere il cerchio.

(Immagine via Stormo | sito ufficiale)

Miner working with Consolidated Coal Company, Kentucky

Tirarsi su dai propri stivali e il mito di farcela da soli

“There is nobody in this country who got rich on his own. Nobody.”
Elizabeth Warren

“Lo slogan che ci ripetiamo tra noi Wu Ming è che bisogna cercare di salvarsi il culo il più collettivamente possibile.”
Wu Ming 2

Mi sembra che oggi il termine self-made man, più che insistere sull’autostima e la fiducia nella propria capacità di forgiare da solo il proprio destino, venga usato principalmente per definire qualcuno che non ha bisogno di regole e norme condivise, che non necessita del supporto della comunità o delle opportunità date dal contratto sociale – che anzi vede come ostacoli alla piena realizzazione della sua missione, quasi superomistica.
Il suo significato originale, nato per indicare la poliedrica e geniale figura di Benjamin Franklin, è progressivamente slittato verso coloriture più individualiste e egoiste, acquisendo un’accezione da uno contro tutti o da uomo solo al comando distante dall’umanesimo illuminista e allo spirito di servizio che guidavano il pensiero e le azioni dell’uomo giustamente considerato uno dei padri fondatori degli Stati Uniti.
Il self-made man odierno sembra ormai rappresentato da colui che conta solo sulla sua capacità imprenditoriale, il suo talento e la sua abnegazione e non ha bisogno d’altro, se non di completa libertà d’azione. Indivisualista convinto e acerrimo acerrimo di lacci e lacciuoli, detesta i sussidi governativi e sembrerebbe l’anti-statalista per eccellenza.
O almeno così oggi si dipinge.

Aiuti pubblici: male, anzi benissimo

Un esempio attualissimo di questa concezione contemporanea del self-made man – ormai lontana anni luce rispetto a quella di Benjamin Franklin – potrebbe essere rappresentato da Elon Musk. Le sue condizioni di partenza – almeno quelle economiche – non erano sicuramente di indigenza. Il divorzio dei suoi genitori, il carattere difficile del padre e il pesante bullismo subìto a scuola sono fattori che avrebbero potuto tagliargli le gambe e che Musk ha invece superato.
Pur essendo dotato di una indiscutibile intelligenza e pur ammettendo che abbia perseguito i suoi scopi con una tenacia ferrea, il fatto che ce l’abbia fatta da solo, arricchendosi unicamente grazie alle proprie capacità di muoversi nel libero mercato, senza aver bisogno di finanziamenti o appalti pubblici, sembra reggere poco.
Leonardo Bianchi, in un articolo per Valigia blu, ha analizzato come il miliardario alla guida del DOGE abbia invece nei contratti pubblici una delle fonti primarie della propria ricchezza:

Tuttavia, secondo un’inchiesta del Washington Post condotta da un team di giornalisti, lo stesso impero economico dell’uomo più ricco del mondo si è sviluppato attraverso il sostegno di almeno 38 miliardi provenienti da contratti governativi, prestiti agevolati, sussidi e crediti fiscali. Aiuti pubblici che hanno avuto un ruolo cruciale nella crescita delle aziende di Musk. Le prime tracce di questi finanziamenti, scrivono i giornalisti del Washington Post, risalgono a più di 20 anni fa.

L’articolo prende in esame il caso emblematico di Tesla, mostrando poi come altre aziende di Musk – da Space X a X Corp – abbiano prosperato e prosperino grazie a contratti di questo tipo: leggetelo tutto, è un ottima fonte di informazioni per capire il lato statalista, poco conosciuto, del padrone di X.

La pigrizia, l’immoralità e altri stereotipi

Un altro esempio vivente utile a sfatare il mito del farcela da soli tira in ballo l’attuale vice-presidente degli Stati Uniti, J.D. Vance.
“Il mito per cui J.D. Vance è arrivato sulla alla vetta con le proprie forze” è il titolo di un articolo pubblicato sul Times a luglio dell’anno scorso: l’autrice è la scrittrice Bobi Conn che ha mostrato come l’ascesa di Vance alle massime cariche dello stato non sia avvenuta solo perché ha saputo smarcarsi e superare una situazione di partenza difficile e dolorosa. Conn è nata nel Kentucky, nel cuore dell’Appalachia e, come Vance, e ha alle spalle una famiglia afflitta da gravi problemi di dipendenze, violenza domestica, povertà e disagio mentale. La scrittrice ricorda a Vance come entrambi abbiano potuto studiare grazie a borse di studio pagate da altri:

…mentre il suo memoir ha trovato eco nei lettori per la sua narrazione tipicamente americana di un self-made man, la realtà è che Vance non è arrivato fin qui da solo. Ce l’ha fatta grazie alle politiche e ai programmi che supportano la classe operaia. Infatti, è una delle poche cose che io e lui abbiamo in comune.
Ho potuto frequentare il Berea College, un college gratuito qui nel Kentucky orientale dove ogni studente lavora e che ha lo scopo dichiarato di dare un’istruzione superiore agli abitanti degli Appalachi con un basso reddito, proprio come ha istruito uomini e donne, neri e bianchi, fino dal 1855, anno della sua fondazione. Vance ha frequentato la Yale Law School con una generosa borsa di studio, un vantaggio che alcune delle migliori scuole della nostra nazione offrono agli studenti con un reddito basso.

Il memoir di cui parla Conn è “Elegia americana”: pubblicato nel 2016, è il libro autobiografico della giovinezza di Vance a Middletown, in Ohio, e della storia della sua famiglia, originaria del Kentucky, contea di Breathitt, negli Appalachi. Vi si racconta di come a causa della pesante tossicodipendenza della madre, Vance sia stato cresciuto dai nonni – anche loro con problemi di alcolismo – riuscendo grazie ai propri sforzi a studiare, laurearsi in legge a Yale per poi arruolarsi nei Marines.
Citando ancora Bobi Conn:

Vance nelle sue memorie ha contribuito a perpetuare gli stereotipi sui “poveri pigri” quando ha parlato della sua frustrazione per aver scoperto, a 17 anni, che ci sono adulti che ricevono il sussidio che osano possedere cellulari e acquistare cose che i buoni pasto non coprono (alcol e sigarette, per esempio). Tuttavia, sembra essere consapevole anche di un altro punto che è fondamentale per questa discussione, sebbene non sia un argomento popolare nel discorso politico: le nostre scelte sono plasmate dalla nostra cultura e nessuna delle questioni di classe che critica può o dovrebbe essere attribuita all’immoralità.

Gli Appalachi rispondono

Oltre a non riconoscere l’utilità dei programmi di welfare, “Elegia americana” è fortemente criticabile per il disprezzo che riversa sulle persone degli Appalachi che bolla come allergiche al lavoro e al sacrificio, svogliate e incapaci di abbandonare i vizi che non possono permettersi. L’accusa di immoralità è forse la peggiore di tutte, tanto da aver generato numerose risposte per contrastarne la rozzezza e l’infondatezza.
Ne cito solo alcune:
“JD Vance and I share Appalachian roots. He’s just the latest to exploit the region for personal profit” di Meredith McCarroll;
“What You Are Getting Wrong about Appalachia” di Elizabeth Catte;
“What JD Vance gets wrong about Appalachia” di Micah Clark Moody.
Da ricordare le parole di Barbara Kingsolver, cresciuta anche lei nel Kentucky e autrice del magnifico Demon Copperhead, opera che le è valsa il Premio Pulitzer e che degli Appalachi e della sua storia ha dato tutt’altra versione: intervistata nel podcast “Armchair Expert” (minuto 48:32) riguardo al libro di Vance dice:

La descrizione che ha dato della popolazione mi fa davvero arrabbiare. Non ha menzionato la povertà strutturale. Non ha descritto la storia di questa regione. È stata una auto-esaltazione della grandezza del risultato personale raggiunto. È l’esaltazione del farcela da soli (bootstrapping): sì, ho frequentato uno dei college dell’Ivy League e, se lavori duramente, puoi farcela anche tu. Ma in realtà, e questa è la cosa più straziante, è che non ha fatto altro che confermare gli stereotipi sull’Appalachia.

Significativo, infine, “Appalachian Reckoning: A Region Responds to Hillbilly Elegy”, un libro che è una vera e propria reazione collettiva al libro di Vance, oltre che una testimonianza della vitalità intellettuale e delle possibilità di sviluppo presenti e attive nella regione appalachiana.

L’Appalachia è una regione da sempre trattata come una colonia interna da sfruttare al massimo: dalle compagnie minerarie che ne hanno fatto la loro terra di conquista – i minatori venivano pagati con monete coniate direttamente dalle compagnie che potevano essere spesi solo nei negozi e nell’affitto delle abitazioni, entrambe di proprietà delle coal companiesa quelle farmaceutiche che qui hanno sperimentato l’ossicodone, causando la più grande e letale crisi degli oppiodi di tutti gli Stati Uniti.
E la soluzione per l’Appalachia sarebbe, secondo Vance, quella di farcela da sola: bootstrapping, tirarsi su dai propri stivali, un’espressione che arriva dal barone di Münchhausen che racconta di essersi salvato dall’affondare in una palude tirandosi su con le cinghie dei propri stivali. Un personaggio che aveva ironicamente nel proprio stemma il motto “Mendace veritas”.

Finisco con un’ultima considerazione sul mito dell’uomo che si è fatto da solo e sul prezzo che spesso questo comporta, in special modo sugli effetti collaterali che ci si lascia dietro quando – più che una legittima aspirazione a emanciparsi da una condizione di miseria – si persegue con cieca spietatezza la ricchezza e il successo ad ogni costo.
Mi viene in mente l’ultima strofa de “L’odore” di Giorgio Gaber e Sandro Luporini:

Io che conosco tanta gente
son venuto su dal niente
c’ho una bella posizione 
non è giusto che la perda
mi son fatto tutto da me 
mi son fatto tutto da me
mi son fatto tutto da me.
Mi son fatto tutto di merda.


(Foto: “Miner working with Consolidated Coal Company, Kentucky” | Photo by Ben Shahn | via Library of Congress)