E sicché, quasi due anni fa, stavo aspettando un social open source e decentralizzato come Mastodon e non sapevo che negli stessi giorni in cui scrivevo questa e-mail a Mauro Sandrini questo vago desiderio, grazie all’opera di altri, aveva appena trovato un suo modo di divenire realtà: ai primi di Ottobre del 2016 compariva la prima release di Mastodon, social network senza pubblicità, nato come libera federazione di piattaforme differenti e autonome – un po’ come ci si poteva immaginare Internet una ventina d’anni fa.
Da pochissimi giorni mi sono iscritto a un’istanza di Mastodon, una delle sue tante comunità: non so come andrà a finire, so che poter minimamente contribuire alla riuscita di uno spazio di discussione aperto e intelligente rimane il mio programma minimo. Per quello massimo, si sa, bisognerà stare anche in mezzo alla strada.
Con il permesso di Mauro, questa è l’e-mail a lui inviata il 25 Ottobre 2016.
Caro Mauro,
ce la faccio a mettere giù due righe riguardo agli scambi veloci e aforistici – sui social va così – sulla vicenda we are twitter di cui hai scritto anche tu sul Fatto.
I motivi che mi fanno dubitare fortemente dell’iniziativa sono complessi, provo a esemplificarli scrivendoti, nella speranza, magari, di trovare un po’ di tempo per rifletterci meglio e scriverci un post sul mio blog.
Il motivo principale dei miei dubbi è che #wearetwitter mi pare appartenere e non uscire dai canoni e dalle contraddizioni del platform capitalism e della sharing economy; Twitter è una piattaforma che si basa sui contenuti pur non producendone alcuno, così come fa Facebook. E così come, per altri servizi, fanno Airbnb e Uber con le case e con i taxi. Gestiscono l’infrastruttura, selezionando e ristrutturando, secondo algoritmi loro, contenuti altrui: sono colossi tendenti fisiologicamente al monopolio, con enormi poteri di censura – i casi, anche italiani, di shadowban usciti fuori ultimamente su Twitter non ne sono che la parte minima.
Ora: vale la pena investire risorse, energie e tempo su un modello di questo tipo? “Scalare twitter” – ammesso sia realizzabile – attraverso un azionariato globalmente diffuso, permetterebbe un progressivo sganciamento da questo modello di comunicazione e o di business? Il modello della “fabbrica recuperata”, che per il lavoro manuale ha dimostrato funzionare spesse volte, può valere anche per una società quotata in borsa e così liquida nella sua costituzione? Personalmente la vedo dura, ma può darsi anche – anzi, è sicuro – che non sia così addentro ai meccanismi del crowd sourcing capitalism e delle sue tattiche.
Rispetto a questo modello c’è che il Web in generale io lo penso e lo vorrei profondamente diverso; se mi passi lo sproposito geopolitico, idealmente lo penserei come il Rojava: una libera federazione di comunità autonome, capaci di raccordarsi, allontanarsi e riaggregarsi, senza bisogno di un centro forte a tenerne le fila e delimitarne i contorni. Per questo credo che il modello che più si avvicini a questo sia quello del platform cooperativism – che so che tu conosci e segui.
Insomma, a dirla più sinteticamente possibile: #wearetwitter mi sembra un’iniziativa pericolosamente tutta nel campo della sharing economy (e del platform capitalism) e non del cooperativismo tra piattaforme, autonome e libere.
Spero di non aver detto troppe cazzate, ti lascio solo tre link da vecchi bookmark sulla questione sharing economy vs platform cooperativism, ma magari li conosci già.