Seminare distruzione

Succedono cose inquietanti e impensabili fino a pochi anni fa: come Elon Musk, l’uomo pù ricco del pianeta, che intervista Alice Weidel, co-presidente del partito tedesco di estrema destra AfD sul suo personalissmo social, ormai megafono e strumento di influenza nella politica americana e intrusione in quella internazionale.

Durante l’intervista il padrone di X ha rivolto a Weidel una domanda sul passato nazista della Germania e sul fatto che il suo partito sia descritto come di estrema destra. Lei non si è limitata a dire che AfD sarebbe un partito conservatore e libertario, ma ha aggiunto che Adolf Hitler era di sinistra e non di destra, adducendo come spiegazione la forte spesa statale per il riarmo della nazione e un’economia pianificata. E che la parola chiave per i nazisti era socialista e non la parola nazionale che ritenevano opportuno mettere davanti quando si definivano. Insomma: secondo Weidel, Hitler era un comunista antisemita mentre il suo partito sarebbe l’opposto.

Siamo al delirio. E le parole che avrei usato per descrivere i tempi e le dinamiche che viviamo non avrebbero mai avuto la forza e la pregnanza di quelle che invece leggerete qui sotto e per cui ringrazio Cinema et politique che le ha postate su Bluesky.
Si tratta di un estratto da un’intervista a Arnaud des Pallières per il suo film “Drancy Avenir”:

Borges ha detto che il nostro futuro è certo perché nessuno può agire su di esso, ma che il nostro passato è incerto perché è facile modificarlo. Divertente paradosso, ma se pensiamo all’impresa negazionista, la frase di Borges diventa più chiara.
Il nostro futuro contiene il seme della distruzione del passato.

Se volete, Deutsche Well ha pubblicato un’importante operazione di live fact-checking dell’intervista a Weidel sul proprio sito.
Il Germania il 23 febbraio si terranno le elezioni politiche e Musk continua nelle sue X-ingerenze nel tentativo di far vincere Afd: stavolta la diretta dell’intervista, nonostante i 210 milioni di follower di Musk, è stata seguita da circa duecentomila persone. Speriamo siano sempre meno e che i semi secchino presto.

Ce la fai a scrivere ancora su Facebook? Il cuore ti reggera?

Ti regge la pompa?

Tre notizie, tutte di oggi, riguardanti Meta Platforms.

La prima: Meta eliminerà i factchecker e consiglierà più contenuti politici su Facebook e Instagram. Questo il succo di un messaggio video in cui Mark Zuckerberg ha promesso di dare priorità alla libertà di parola dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Il servizio di fact-checking sarò sostituito da un sistema simile al community notes già presente su X di Elon Musk che si affida agli account della propria piattaforma per aggiungere avvertenze e contesto ai post che possono risultare controversi.

La seconda: Mark Zuckenberg ha nominato Joel Kaplan nuovo presidente degli affari globali di Meta. Kaplan è un ex membro del Partito repubblicano, già vice capo di gabinetto della Casa Bianca durante la presidenza di George W. Bush che non ha mai nascosto le sue simpatie verso Donald Trump. A corredo del messaggio video di Zuckerberg, Kaplan oggi ha scritto un post dove ribadisce il fatto che saranno rimosse alcune restrizioni su argomenti come immigrazione, genere e identità di genere.

La terza: John Elkann, presidente di Stellantis e amministratore delegato di Exor, holding della famiglia Agnelli, è entrato a far parte del consiglio di amministrazione di Meta. Elkann, grande estimatore dei dividendi finanziari, della delocalizzazione alla ricerca di salari bassi, in quatrro anni ha distribuito agli azionisti 23 miliardi di euro tirando in ballo le politiche ambientali europee e l’arrivo delle auto cinesi come motivo per il declino dell’automotive in Italia.

Come ciliegina finale si può aggiungere il fatto che insieme a Elkann nel cda di Meta è entrato Dana White, presidente della Ultimate Fighting Championship, la più importante organizzazione nel campo delle arti marziali miste. Convinto supporter di Donald Trump, è stato tra i primi a ringraziare per aver contribuito alla sua vittoria i podcaster e gli streamer Joe Rogan, Adin Ross e Theo Von.

Ora dimmi te: avrò il coraggio di continuare a stare, seppur molto saltuariamente e a modo mio, su quella piattaforma?
O, come dicono a Roma, quanto mi reggerà la pompa per sopportare che i quattrini che fanno sulla pelle dei miei dati vadano in queste direzioni e a queste persone?
E tu che, forse non hai nemmeno le mie idee politiche o tutte le mie remore, ma che reputi queste persone lontane da te e da quello che credi, ce la fai a continuare a dirgli a cosa stai pensando?

[Aggiornamento | h 19.00] Durante una conferenza stampa hanno appena chiesto a Trump se le decisioni prese oggi da Zuckerberg siano dovute alle sue minacce (tra cui quella di ficcarlo in galera).
Trump ha risposto: “Probabilmente”. Aggiungendo “penso che Meta e Facebook abbiano fatto molta strada.”

(Immagine via at that time | Bluesky)

Tempi duri per il caro vecchio link - Immagine di D koi

Tempi duri per il caro, vecchio link

Non che ci fosse un estremo bisogno di conferme, i più accorti lo avevano già capito sperimentandolo direttamente sulla propria pelle, ma da un paio di giorni ci sono le parole scritte direttamente dal proprietario di X: i post che contengono un link esterno vengono penalizzati nella diffusione sul suo social network.

Facebook è già dal 2017 che adotta questa tecnica, privilegiando commenti e like invece dei click, tanto che i suoi iscritti da un po’ di tempo hanno iniziato a proporre eventuali link esterni nel primo commento dei propri post. È Musk stesso a prendere atto di questo e a dire la stessa cosa per il suo megafono personale: chi vuole può scrivere un descrizione nel primo tweet e inserire il collegamento nel primo reply – così “this just stops lazy linking“.

Will Oremus lo scrive oggi sul Washington Post:

È un altro segnale che l’umile collegamento ipertestuale – il tessuto connettivo dell’Open web – sta attraversando un periodo difficile.

Oltre a X e a Facebook, anche Threads – per bocca del suo reponsabile Adam Mosseri – ha ammesso che il social non penalizza direttamente i post contenenti collegamenti ipertestuali, ma l’algoritmo potrebbe dare priorità a quelli che generano più commenti e like.

Ora: potrei tranquillamente usare l’epressione ormai abusata e cacciariana del “sono vent’anni che lo dico!”, ma non servirebbe a niente. Anzi, sarebbe peggio. Perché se questo è un segnale che lampeggiava da tempo, tipo allarme rosso, agli occhi di chi ha a cuore la condivisione e una visione del web lontana dai giardini recintati tanto cari ai tech bro e ai monopolisti della Rete, bisogna ammettere che non si è avuta la capacità di opporvisi: non si è rusciti a far capire che un link a una fonte esterna era un valore aggiunto per un social perché forniva un’attendibilità e una base più concreta – sempre verificabile dalle persone che cliccavano e andavano a leggere – a un ragionamento o a un’affermazione. Perdendo questa battaglia sui link, sono arrivati gli e le influencer che parlano di argomenti senza alcun bisogno di dimostrare e mostrare nient’altro che il numero stratosferico dei loro followers e relativi commenti.

Per ora, tra i maggiori social network, solo Jay Graber, CEO di Bluesky, ha dichiarato la propria apertura verso i link esterni; e credo che anche Mastodon non applichi nessuna penalizzazione. Per chi vuole starne fuori o non usare soltanto i social, ci sono sempre i blog, i forum, le newsletter e i giardini digitali dove il caro vecchio href, primo motore del web, sopravviverà.
In attesa della chiusura – ne sono sicuro – di questi orticelli chiusi votati principalmente al profitto e a poco più. Perché, come ha ribadito Cory Doctorow aggiungendo un’ultima fase ai tre step dell’enshittification delle piattaforme: alla fine “they die”.

(Immagine di D koi | via Unsplash)

soundwavesoffwax | Instagram

Musica analogica: bellezza e tossicità dei social

Sul Guardian leggo questo articolo che parla di Julia, una giovane canadese a cui il babbo, morto due anni fa, ha lasciato una collezione di più di 10.000 dischi.
Su suggerimento di un amico, Julia inizia, in maniera casuale, a condividerne dei brevi estratti su Instagram: è un modo originale e altruista per tenere vivo il ricordo del genitore e per scoprire autori e generi musicali. Ogni volta che condivide un sample non fa nessuna ricerca online: lo mette e ascolta la musica che il padre ha collezionato per tutta la vita. Così a volte può capitare – anche se è lei stessa una musicista – di incappare in scivoloni e mezze gaffe, tipo quando pronuncia come David Bairon il nome del fondatore dei Talking Heads. Ma questo non conta: oltre al fatto di custodire la memoria del babbo, conta il fatto che entra in contatto con una comunità sempre più ampia di persone interessate alla musica: a alcune fa riaffiorare avvenimenti e memorie legate a quei brani, per altre sono un ottimo aiuto per elaborare lutti simili.
In più, Julia impara anche la gentile arte di ascoltare per intero un album, abbandonando la frenesia di saltare compulsivamente da un brano all’altro: scopre l’analogico.

Le sue parole nel finale dell’articolo mi sono piaciute molto perché sono uno dei motivi per cui tengo molto alla mia collezione di libri (di vinili ne ho molti, molti meno):

“There’s something really beautiful about having physical copies of music,” Jula said. “We can laugh, but when I die, if I have kids, what are they going to be left with – a streaming library?”
(“C’è qualcosa di davvero bello nel disporre di copie fisiche della musica – dice Julia – “Possiamo anche riderne, ma quando morirò, se avrò dei figli, che cosa gli lascerò? La collezione in streaming?”)

E cosa ci incastra la tossicità dei social in questa storia? Dopo aver letto l’articolo del Guardian, vado sul profilo Instagram di Julia, mi iscrivo e inizio a leggere un post. E il primo commento (con una sessantina di like) che leggo dice: “Tuo padre aveva dei dischi terribili”.
Sono andato sul profilo della persona che l’aveva scritto e l’ho bloccato. Poi, mentre scrivevo questo post, ho deciso che avrei anche dovuto segnalarlo: sono ritornato sul post di Instagram, ma era stato rimosso. Mi dispiace, perché avrei voluto individuare e bloccare anche quella sessantina di imbecilli che avevano messo il loro like a quella micropunta di cattiveria gratuita o ignorante che non va mai tollerata.
Lo so che è la scoperta dell’acqua calda, ma conviene sempre ricordarlo: non sono i social a essere tossici o meravigliosi, sono le persone che li usano a decretarne l’utilità o la dannosità.

(Foto via soundwavesoffwax | Instagram)

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Connessioni, numeri e grattarsi

“Non smetterò mai di scrivere sul blog: è come un prurito che devo grattare – e non mi importa se è un formato superato.”

Sono parole di Simon Reynolds che, quasi un anno fa sul Guardian, scriveva come il blog rimanga per lui il formato perfetto: nessuna restrizione in termini di lunghezza o brevità – sia che si tratti di un meticoloso post di 3000 parole scelte con cura, sia che si tratti di un brogliaccio di meditazioni o fantasticherie. Nessuna norma sul tono e sulla consistenza del tono da usare. Nessuna schiavitù da orari e scadenze.
E, specialmente, la possibilità di divagare, scegliendo e approfondendo temi che non sono di stretta d’attualità, anche sconfinando in campi e argomenti poco conosciuti. (“I can meander, take short cuts and trespass in fields where I don’t belong.”)

Quella che invece è sparita – continuava Reynolds commentando e ampliando l’articolo anche sul suo Blissblog – è la comunicazione tra blog (“But what’s changed – what’s gone – is inter-blog communication”). Sono sparite le relazioni tra blog, insomma. Di conseguenza, le relazioni tra blogger.

L’articolo di Reynolds mi è tornato in mente quando stamattina ho letto il post di Flavio Pintarelli intitolato provocatoriamente “I blog non li legge più nessuno”.
Scrive El Pinta:

L’affermazione trovo sia discutibile e, se nel blogging facciamo rientrare anche chi scrive su Substack (e per me ci rientra eccome), non è vera nemmeno per un secondo.

Ma non è tanto questo che mi fa arrabbiare quanto, piuttosto, la visione della presenza digitale che quell’affermazione sottintende.

Sì, perché dire che i blog non li legge più nessuno significa pensare che il senso di averne uno sia massimizzare la visibilità che la propria presenza digitale comporta.

Perché – e qui sta il succo del discorso – c’è una bella differenza tra scrivere per le relazioni e scrivere per le visualizzazioni.
Il blog innatamente – in quanto mezzo ipertestuale – ha avuto da sempre la capacità di generare relazioni senza che per forza dovessero essere contabilizzate in followers o like di sorta. Spessissimo chi scrive un blog ne legge altri, e abitualmente ne linka i post, discutendone, anche sotto forma di critica i contenuti: è la comunicazione inter-blog che citava Reynolds, quella sottile e semi-quotidiana ragnatela di discussioni, confronti, omaggi, scambi, litigi e critiche che ancora animano le timeline dei blog che citando, linkando, connettono i contenuti e i loro autori/autrici. Attività che oggi è minoritaria, ma non morta – e questo post che sto scrivendo può essere letto come il tentativo donchisciottesco ma sincero di donargli forza.

Le relazioni che nascono su questo tipo di piattaforme sono numericamente inferiori alle cifre da capogiro degli influencer o dei personaggi pubblici: sembrano più fragili, ma hanno in più una veracità, un’autenticità che difficilmente si genera su altri tipi di piattaforme – primi fra tutti i social network – dove la spinta a generare contenuti è data principlamente dal raggiungere più visibilità possibile e influenzando in questo modo forma e sostanza dei contenuti prodotti.
Certo, anche nella blogosfera, c’è stata e resiste l’ansia da prestazione e da visualizzazioni, ma sicuramente non è indotta e incoraggiata dallo strumento stesso su cui si scrive.
Di contro, c’è anche chi da tempo si è reso conto che stare su un social non è una questione di flexare i propri followers, ma di amicizia, interessi comuni e mutuo aiuto: questo post di Paige Jarreau di quasi dieci anni fa lo sintetizzava bene nella sua frase finale:

So what have I learned by reaching 4,000 followers on Twitter? That’s it’s NOT about followers. It’s about friendships.

Poi, per finire, sul fatto che i blog non li legga più nessuno c’è anche chi dice il contrario: nel 2022 di c’erano circa 600 milioni di blog attivi e – a sentire solo quelli su wordpress – circa 70 milioni di post al mese.
Senza fissarsi con i numeri e le prestazioni perché – Flavio ce lo ricorda nel suo post citando Tom Critchlow – facendo così la presenza digitale e il senso di scrivere in rete cambiano radicalmente. Ritrovandosi a sbavare per milioni di pageviews e non accorgendosi delle più modiche e interessanti connessioni che si possono generare.

(Immagine via Retromania | synth porn in the stalker Zone)