Bandersnatch

“Per cambiare un ordine immaginario esistente, dobbiamo prima credere in un ordine immaginario alternativo.”

– Yuval Noah Harari, “Sapiens”, 2011.
Black Mirror: Bandesnatcher - scritto da Charlie Brooker
Black Mirror: Bandersnatch – scritto da Charlie Brooker

Guardando Bandersnatch si mischiano le ossessioni di Philip K. Dick, il software Branch Manager di Netflix, le distopie di Black Mirror.

“Se l’agghiacciante grido dell’androide che si scopre tale è una semplice modalità del programma, una reazione prestabilita in risposta a un determinato stimolo verbale, prodotta dalla diligente attivazione di un certo numero di bit – descrizione che si applica interamente anche al funzionamento del cervello umano, sebbene questo sia fatto di cellule organiche e non di componenti di metallo o di plastica -, cos’è che cambia fra i due?

a) Tutto b) Niente c) Qualcosa, ma non sappiamo cosa. Indicate la vostra scelta barrando la casella corrispondente.

Emmanuel Carrère, “Io sono vivo, voi siete morti”, 2016.

Utilissima, prima o dopo la visione, la lettura del capitolo nove “Dopo l’inizio, la fine” in “Io non sono qui” di Fabio Chiusi: sulla fantascienza, l’uso politico dell’immaginazione – la resistenza speculativa propugnata da Malka Older – e la concreta realtà della distopia.

Cinque anni fa con gli Affluente si citavano Baudrillard e il sogno della merce: “Voi siete lo schermo e la tele vi guarda. Salta il senso del messaggio.”

Sì, è Netflix che sta guardando noi.

Il sogno della merce | Affluente

Il fiuto dello squalo

“Destino non è un termine astratto. Significa avere o no un buon livello di istruzione e poterlo trasmettere; poter scegliere o no dove e come abitare; vivere in salute più o meno a lungo; fare un lavoro gradito, professionalmente interessante oppure no; avere o non avere preoccupazioni economiche; dover temere oppure no che il più modesto incidente della vita quotidiana metta in seria difficoltà sé o la propria famiglia.”
(Luciano Gallino, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”)

Marsilio editore, Gianni solla, Il fiuto dello squalo

Anche Sergio Scozzacane ha la sua comunità di destino. Quella di chi vive alla pensione Nuova Libia con i vestiti sparpagliati per la stanza e una colonia di insetti dentro le pareti. Quella di chi ingoia Supradin e Multicentrum tra una sigaretta e l’altra. Quella di chi ha una macchina stanca già in partenza e pronta a fermarsi quando il viaggio impegni un po’ più a lungo i suoi ingranaggi. Quella di chi sa che aspettare un giorno di più per saldare un debito equivale alla perdita di una falange, negoziabile solo nella scelta dagli arti inferiori o superiori.

Di lavoro Scozzacane fa lo spacciatore di sogni di gloria. Vende quarti di minuti di celebrità a chiunque sia così ingenuo o deficiente da affidarsi alle sue cure. È un impresario musicale che promette palchi di Sanremo e dischi d’oro ai suoi pazienti, che invece si ritrovano mollati sotto un palco pericolante al festival di Licola. Si aspettano eroina di ottima qualità e si beccano il cobret. Continua a leggere…

Habemus Papam

Tempo di Habemus Papam, tempo di Nanni Moretti. Vado a vederlo, fiducioso.

facci sapere. qui ci si fida.
(sooshee (having fun))

anche qui ci si attende un tuo parere
(GhostwritersOnDemand)

[prime impressioni con spoiler] Mi è piaciuta questa storia di un uomo, già in là con gli anni, che rinuncia a essere un agente del cambiamento. Come il Michele Apicella di Palombella rossa, c’è un’amnesia in mezzo, scatenata stavolta non da un incidente ma da un annuncio a un folla in attesa che porta un vecchio prete a decidere di non essere all’altezza della situazione (“Facciamo che tutto questo non sia successo, facciamo che sparisco e non mi vedete più”.) Mi sono piaciuti: i ralenti salvatoresiani della partita di pallavolo, le stanze papali occupate da una controfigura che fuma, mangia dolci e guarda le partite di biliardo alla televisione; il teatro intossicato e reso dalla faccia e dal petto scoperto di Dario Cantarelli (mi è sempre garbato quest’attore), lo psicoanalista e il cardinale sul trespolo del giudice di rete e le battute su Darwin sapientemente mozzate. E poi “Il gabbiano” di Cechov e una battuta non riportata nel film che dice: “Se hai bisogno della mia vita, vieni e prendila”. Tanto l’ultima parola l’avrò sempre io, nel bene e nel male.
(Strelnik)

ah, e che il Cardinale si chiami Melville a me ha fatto venire in mente Bartleby lo scrivano e il suo “preferirei di no”.
(nandina)

“Lo informai rapidamente di ciò che desideravo, cioè che esaminasse con me un breve documento. Immaginate pertanto la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senza nemmeno uscire dal suo rifugio, Bartleby, con tono stranamente dolce, ma al tempo stesso fermo, mi rispose:
– Preferirei di no.”
(H. Melville, “Bartleby lo scrivano”)

Habemus Papam sono d’accordo, aggiungerei la processione inziale con tutto quel rosso, la scenografia incombente sull’individuo-papa, mentre la figura della psicanalista Buy l’ho trovata del tutto superflua.
(nastja)

a me Melville ha fatto subito venire in mente l’incipit di Moby Dick: “Chiamatemi Ismaele”. Ho immaginato che se il cardinale avesse accettato il soglio pontificio avrebbe potuto chiamarsi Ismaele I.
(Strelnik)

[seconde impressioni con seghe mentali e url] L’uomo che tradisce i suoi tempi è l’unico uomo possibile, l’ultimo uomo in tentativo di rivolta. Quando nell’asse x della vita si incrocia il punto omega della fine, quello che si cerca è l’umana pietà. In quei momenti si vuole essere lasciati soli, si vuole mangiare bomboloni alla crema parlottando col fornaio di mattina presto. La pietà e il deficit dell’accudimento sono due cose diverse: http://youtu.be/NwMmP30UHFU
(Strelnik)

a me Melville m’ha fatto venire in mente il regista, l’ho collegato a Léon Morin, poi a occhio mi sembrava un po’ un collegamento stiracchiato se non per contrasto: Morin è una figura molto forte e seduttiva.
(GhostwritersOnDemand | dust)

“Non ci sono più guide, regie, non ci sono certezze scientifiche. Rimane l’umano, il fallimento, rimane la necessità di scegliere una nuova guida, ma senza altra certezza che non sia la ripetizione dello stesso rituale.”
(dust, Qualche nota su “Habemus Papam” ad uso personale)

Anche se il film mi è piaciuto moltissimo, mi ha fatto ridere e, molto, sorridere, forse non ci ho capito granché. Insomma, Strel, in fondo sono solo le tue “seghe mentali” che mi sento di condividere veramente: c’è una straordinaria forza in quest’uomo che rivendica la sua fragilità e la sua paura: quel suo “non ce la faccio” non è l’urlo di un pavido ma l’atto di rivolta da cui attingere il coraggio di ributtarsi sulla strada (senza cellulare), osservare la realtà da un altro punto di vista, ricostruire se stesso, ritrovare la passione (la recitazione), nuove parole per dialogare con la realtà (la scena finale, con Melville che ritrova parole sincere – come una nuova dimora -, il coraggio per dirle, l’empatia con con una folla che aspetta di poter ascoltare una parola sull’uomo e sul dolore; per contrasto, lo sconcerto dei cardinali che aspettano parole potenti e istituzionalmente risolutive… E anche su questo versante molte stratificazioni dell’umano, su cui insiste gran parte del film.) Troppo sfumate, meno semplici da analizzare sono le figure femminili, non isolate dal contesto. Ho trovato interessante e particolarmente ironica l’interazione tra la psicanalista/madre, Melville, i figli di lei, fratellino e sorellina, che battibeccano (Interno dell’automobile, sequenza molto simile a un’altra vista in “La stanza del figlio”. La psicanalista/madre: “Lei picchiava sua sorella da bambino?”; Melville: “Certo.”): c’è un invito allo spostamento su un piano meno esplicito del film? Non lo so. Invece non vedo contemplato, nella figura del papa, un discorso sul “fallimento”, dimensione esistenziale di chi non riesce a superare “la prova”, traducibile anche – semplificando – nella morale borghese del disgraziato che non dà prova di successo. La consapevolezza dell’inadeguatezza al ruolo nel punto in cui la propria umanità rischia l’annichilimento (un’esperienza così comune, altro che papa!) non mi sembra si possa definire come uno scacco. Non è a un’immagine di “fallimento” che conduce la tenda rossa che si apre sul nero dell’assenza e neppure è un’immagine di libertà. Forse rivedendo il film – cosa che ho idea di fare – la smetterò di parlarne così, solo per sottrazione.
(bianca)

io l’ho letto su due livelli: uno, quello dell’umiltà necessaria per svolgere certe attività della vita umana, l’altro quello del rapporto tra l’uomo e le istituzioni in cui, fino ad oggi, trovava un punto di riferimento e che invece (una di queste, la chiesa) sono totalmente piegate su se stesse, in uno stato di distacco assoluto dalle necessità dei singoli individui, tanto da doverne dichiarare il fallimento e la resa con la scena finale (che a me a ricordato moltissimo quella del caimano).
(chamberlain)

Il ripiegamento su se stesse delle istituzioni e le note di “Todo cambia”: agli orecchi di molti non sembrerà che un motivetto fischiabile, mentre una minoranza sentirà un brivido per la schiena. Vedete voi con chi essere d’accordo.
(Strelnik)

a me più che tradire il proprio tempo è sembrato il prendere atto dell’impossibile. La Chiesa è in stallo, le riforme sono inattuabili, necessarie ma impercorribili. “Non sono io”, ma anche “nihil disumani alienum a me puto”. Un “I’d prefer not Pope” che sigilla e sancisce un ready-made: una Chiesa inguidabile.
(gallizio)

C’è una vignetta dei Peanuts dove tutti vedono nelle forme delle nuvole cose assurde e Sally Brown alla fine dice:”Boh, io ci vedo solo un cane”. Ecco, io ci ho visto il parallelismo tra un uomo (troppo vecchio) che si sente inadatto a guidare una chiesa e LA Chiesa (troppo vecchia), attenta solo alle apparenze, che è assolutamente inadatta a guidare gli uomini/il mondo di oggi. Una denuncia, insomma. D’altra parte, senza tante seghe mentali, “Palla Prigioniera non esiste più da 50 anni”…
(Guy)

Boris – Il film

FrancamAnte, mi è piaciuto.

Mi è piaciuto che la musica della formica rossa sia diventata parte della colonna sonora del film.

Mi è piaciuto René Ferretti, degno rappresentante della generazione di operai-intellettuali che si trova a prestare la sua opera prima per la televisione e poi per il cinema (dopo ci sono solo la radio e la morte).

La produzione ti impone un ralenti del giovane Ratzinger tra i campi di grano. Non puoi provare nemmeno a andare a lavorare per la concorrenza perché sono la stesse persone. Che fai?

Fai Boris – Il film.

Gorbaciof

– Ma vafammocc’.
– Mannagg’ a maronn’
Rispettivamente: la frase che apre e quella che chiude il film.
La prima esce dalla bocca di Gorbaciof quando sono già passati diversi minuti dalla sua entrata in scena.
L’ultima, già sfumata sulla musica che porta ai titoli di coda, arriva dall’interno di un’automobile dove è appena avvenuto qualcosa di gusto tarantiniano (lo vedi che succede a portare le pistole cariche?)
Gorbaciof - Il cassiere con il vizio del gioco
In mezzo alle due battute c’è la storia di Marino Pacileo, ragioniere della galera, dal soprannome tardo sovietico per la vistosa voglia che tiene in fronte. E sopra a tutto c’è Toni Servillo, bravo come davvero pochi lo sono, impeccabile e guappo, ellittico e violento, a volte quasi noir come un fumetto quasi noir.1
Gorbaciof: questo Titta Di Girolamo più proletario, stesso lavoro da contabile ma facile alla rissa, sempre coi soldi tra le mani, e ugualmente consapevole di non sottovalutare mai le conseguenze dell’amore.

  1. mi viene in mente il numero del numero 3 del Canemucco, con una citazione a Vico Speranzella che è un omaggio a Sorrentino e Servillo de “L’uomo in più”, credo []