“Anche se in molti dei suoi aspetti questo mondo visibile sembra formato nell’amore, le sfere invisibili furono formate nella paura.”
– Herman Melville, Moby Dick
“Ci troveremmo allora dentro la geometria di una terra fiabesca, una galleria di specchi le cui prospettive raccapriccianti andrebbero al di là di ciò che la mente civilizzata – che aborre e rifugge tutto ciò che non riesce a comprendere – potrebbe concepire”
– Karl Schwarzschild
Mi sono ritrovato a leggere “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” di Benjamín Labatut in parallelo con “Helgoland” di Carlo Rovelli. Senza averlo programmato, senza averne contezza. Mentre questo fatto potrebbe avere un densissimo significato in qualche piega del tempo o dello spazio.
(e no, non è quello della pubblicità per l’Adelphi, malfidati civilizzati che non siete altro)
I tempi sono quelli che sono, e fosse stato vivo Philip Dick ce lo saremmo ritrovati su qualche social o blog a descrivere o trasfigurare questa distopia in corso.
Io e MineVale lo abbiamo ricordato così, attraverso le immagini registrate sul muretto sotto casa, con le parole e le sottolineature de “Il cacciatore di androidi” e grazie alla musica di di Martijn de Boer (NiGiD) pubblicata sotto creative commons su CCmixter.
Se potete usate le cuffie e un volume medio: dura un minuto, buona visione.
Ma non è lavoro, questo, è un senso di colpa, un opportunismo cinico, una manipolazione continua, deprivazione del sonno, bipolarismo, tensione, antilingua, rapporti poco chiari, poco onesti, torbidi, l’editoria, la provincia, le pacche sulla spalla, la maschera della morte rossa, la nube purpurea, gli ultracorpi, il Weneto…
– ale, “Se volete, parliamo del lavoro”
E questa cosa che ale di brekane pubblica due post nell’ultima settimana lo si prende come un ulteriore segnale che un altro flusso potrebbe presto formarsi.
Qui ci si lavora zitti zitti.
Facciamo una prova con la vita reale, come se Internet non esistesse.
Fai conto che esci di casa e incontri uno o una che non hai mai visto. Ti ci metti a parlare cinque minuti al bar, dal parrucchiere o in mezzo alla strada e quello o quella, senza nemmeno essersi presentato, comincia a dirti che sai, esistono delle sostanze rilasciate in cielo dagli aerei che noi respiriamo inconsapevolmente e è per questo motivo che siamo diventati così arrendevoli, passivi e obbedienti. Te ascolti, fai qualche faccia basita – scuola Stanis La Rochelle – poi mormori un “Mah, è un mondaccio” e te ne vai dove devi andare.
Poi, più tardi, quando torni a casa e parli con qualcuno – moglie/marito, figlioli, amici, vicini – manco ti viene in mente di dirgli che hai incontrato questa persona che ti ha rivelato un segreto di tali dimensioni. Perché a occhio ti sembra una stronzata e se proprio lo dici a qualcuno, fai prima una premessa dicendo che chi te lo ha detto sembrava molto convinto ma non ti ha fornito nessuna prova concreta del suo discorso. E specialmente non la conosci: nonostante all’apparenza sembrasse una persona ragionevole, non sai se puoi fidarti di lui/lei perché è la prima volta che la incontri.
Se poi la cosa ti ha un minimo interessato, potresti chiedere in giro se qualcuno ha mai visto quella persona e se ha detto a qualche altro le stesse cose che ha detto a te. Potresti andare in una biblioteca e cercare qualche libro o notizia sull’argomento. Potresti rintracciare la persona in questione e chiederle maggiori informazioni, opporle alcuni dubbi.
E poi online.
Ti capita una notizia simile scritta in un post di un sito Internet mai sentito rilanciato da qualche social mai sentito e te che fai?
Lo condividi aggiungendoci un tuo breve testo in cui ti incazzi per la pigrizia del popolo che non si accorge del sistema che lo fotte.
Di spendere mezz’ora di tempo per fare un controllo minimo di quello che stai appoggiando e diffondendo non te ne frega nulla.
L’importante è la dimensione sfogatoio, lo sguazzare nel confortevole confirmation bias e l’attesa dei like e delle faccine.
Fermo restando che anche questa volta si tratta di una questione di fiducia, io non ci credo o non ci voglio credere che le persone si fidino davvero di più di un algoritmo che di un’altra persona – come dice questo studio della Harvard Business School [.pdf | 407 KB]