Il blogger postumo e Majakovskij

Stanotte ho letto l’intervista a bgeorg sul blogger postumo. L’ho fatto con mesi di ritardo; una lettura postuma.
L’ho fatto perché sono anni che voglio lasciar scritte sul blog queste parole di Roman Jakobson su Majakovskij e questa mi sembra l’occasione giusta. Non riguarda i blogger, la Rete e tutte le altre cosette, ma molto di più.

“Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse rimanere un passato, s’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo nel futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente. Noi siamo i testimoni e compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora.
La vita quotidiana è rimasta indietro.
Sappiamo che già i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la vita quotidiana. Ma i nostri padri avevano ancora residui di fede nel suo carattere confortevole e universale. Ai figli è rimasto soltanto un odio nudo per il ciarpame ancora più logoro ed estraneo di quella vita. Ed ecco i tentativi di organizzare la vita personale assomigliano agli esperimenti per scaldare un gelato.
Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di uomini dello scorso millennio”

Marxionne a Detroit

L’amministratore delegato di Fiat e Chrysler, Sergio Marchionne, inaugura a Detroit il nuovo anno aggiungendo al consueto maglioncino scuro un volto da barbudos completo di sciarpone grigio.

E chi se ne strafotte – potrebbero rispondere gli operai e i delegati della FIOM che dal primo dell’anno si son visti sfrattare da Mirafiori, certamente più preoccupati dalla gestione autoritaria di Marchionne che delle sue mise da perenne casual Friday.

Più che giusto, ma una riflessione veloce e qualche ipotesi vale la pena farla.

Al primo impatto il nuovo look potrebbe essere un invito alla sobrietà e ai sacrifici che il governo Monti con aplomb e grigia stitichezza sta proponendo alla solita maggioranza di popolazione.

Ma a Marchionne, che pur apprezza Monti, credo freghi poco di fare da testimonial a uno Stato e ai suoi problemi. Lui è un manager globale, ha tre cittadinanze, mica puoi imbrigliarlo nelle beghe nazionali.

Poi, in questi giorni, leggendo questo post su Giap, mi è tornato in mente quello che, all’incirca un anno fa, ha scritto Mario Tronti a proposito dell’AD Fiat:

È un politico fuori del palazzo. Non viene però percepito come un esponente della società civile. A meno di sorprese, o di svolte clamorose, non si sente parlare di una sua discesa in campo. Non è un Montezemolo che dal predellino della sua rossa Ferrari o dal suo passato di presidente della Confindustria si affaccia sul teatrino della politica. Non è nemmeno il solito governatore di Bankitalia, pronto a correre a salvare i conti pubblici. Marchionne è il rappresentante di un’antipolitica, diciamo così, nobile, comunque non plebea, sicuramente non populista. È lui il vero uomo del fare. Il suo maglioncino d’ordinanza è più che un vezzo: blu, come le tute dei suoi operai. Dà piuttosto l’idea di una scelta simbolica. Mi dicono che si è presentato così al Quirinale, ricevuto dal capo dello Stato. L’etichetta istituzionale, espressa nelle grisaglie degli uomini politici, non fa per lui. Interessante è questa volontà di potenza extraistituzionale, che vuole marcare una differenza formale. Come dire: io maneggio i problemi reali, mi occupo di rapporti materiali, sono sempre sul luogo di lavoro, non posso stare in giacca e cravatta.

(Mario Tronti, “Berlinguer a Pomigliano” in “Nuova Panda, schiavi in mano”, Derive Approdi, 2011)

Come fai a dirgli di rimanere e rispettare le regole a uno così?

Parcheggiare con Rousseau | incubo n.4

Rousseau: «Vi piacciono i gatti?».
Boswell: «No».
Rousseau: «Ne ero sicuro. È un segno del carattere. In questo avete l’istinto umano del dispotismo. Agli uomini non piacciono i gatti perché il gatto è libero e non si adatterà mai a essere schiavo. Non fa nulla su vostro ordine, come fanno altri animali».
Boswell: «Nemmeno una gallina, obbedisce agli ordini».
Rousseau: «Vi obbedirebbe, se sapeste farvi capire da essa. Un gatto vi capisce benissimo, ma non vi obbedisce».

(da Visita a Rousseau e a Voltaire di James Boswell, p. 72-73)

A una decina di metri vedo il sociologo Calzolai. Sta sul bordo d’una piazza vicina a casa mia (una delle rarissime piazze dove le automobili non possono entrare) e sta parlando con un ragazzo con una casacca arancione, il blocchetto di carta in mano e il marsupio appisolato  intorno alla vita.
Il sociologo si mette una mano sulla fronte e ascolta, fa caldo, questi trenta gradi di maggio picchiano sodo su tutti, specie sui parcheggiatori, obbligati a non abbandonare la strada pittata di strisce blu anche sulle modeste asperità dei sampietrini.

– “Ma che hai parcheggiato a pagamento?” – gli dico io appena dopo esserci salutati.
– “No, ho parcheggiato lontano. Col parcheggiatore ci parlavo perché era uno studente che ha fatto la tesi con me. Ora fa il parcheggiatore” – mi risponde il Calzolai mentre ci si avvia verso un bar.
– “Che tesi era?”
– “Su Rousseau. Sai che m’ha detto?”
– “Che t’ha detto?”
Bella, sì, la tesi su Rousseau – m’ha detto – il brutto è che aveva ragione

I due del treno | incubo n.3

C’erano questi due di fronte a me che parlavano fitto fitto. Un uomo e una donna sulla cinquantina con le magliette a maniche corte e delle riviste spiaccicate sulle gambe.
– Anch’io che credi? Anni di gavetta e pezze al culo fino a più di quarant’anni.
– Gastrite?
– Ulcera.
– Ecco.
– Perforante.
– Mi dispiace.
– Ho anche lavorato con Ronconi.
– Ah
– Sono stato a vivere in India e a New York. Un casino di laboratori e seminari in tutta Europa.
– Pagato?
– Niente o quasi niente.
– Come campavi?
– Lavoravo in una tipografia.
– Bello?
– Molto bello. Mi piaceva, ho imparato un mestiere.
– Era faticoso?
– Non tanto. Era un po’ pericoloso, per il saturnismo.
– L’avvelenamento da piombo?
– Sì. Un paio di vecchi compositori erano intossicati di sicuro.
– Che facevano?
– Gli si atrofizzavano le mani, a volte sparlavano o entravano in paranoia.
– Il latte glielo davano?
– Un litro al giorno, ma solo dopo che erano nati i sindacati. Prima niente.
– E poi che hai fatto?
– Dove, in tipografia?
– No, in generale.
– Mi sono rotto i coglioni e ho mollato il teatro.
– E ora che fai?
– Aspetto che mi ripigli la voglia.
– Ah
– E tu cosa fai adesso?
– Scrivo un saggio.
– Bello.
– Macché.
– Ti è sempre piaciuto scrivere.
– Se avessi avuto i mezzi per viaggiare sempre credo che non avrei scritto un rigo.
– Veramente?
– No, ma l’ha detto Vittorini.
– E che c’entra?
– Niente, non c’entra niente, scusami.
– Perché l’hai detto allora?
– Mah, così, per dire una cosa, per prenderti un po’ in giro
– Per prendermi in giro?
– Sì, dai.
– Quasi dieci anni che non ci vediamo e tu dopo dieci minuti mi prendi in giro?
– Era così, per sdrammatizzare un po’.
– Perché io drammatizzavo?
– Sì, mi è sembrato di sì.
– Ma quando? Su che cosa? Di quale cosa in particolare stai parlando?
– Calmati, perché la prendi così?
– E come cazzo dovrei prenderla?
– Ah, belle parole, sì. Bravo.
– Senti: ho drammatizzato che cosa?
– Quasi tutto.
– Ma che dici? Come ti permetti?
– L’hanno ascoltata tutti la tua epopea. Lei l’ha sentito bene, non è vero?
(e mi ammiccava alzandosi gli occhiali scuri)

Mi sono svegliato e i due sul treno per Berlino non c’erano più. Faceva già caldo e c’era la luna piena.

Le pillole e le rose | incubo n.2

Pacman stoppedAvevo un faccione giallo, la bocca aperta e mi muovevo abbastanza liscio se andavo dritto. Quando c’era da svoltare era un casino: era come se non conoscessi la dimensione della profondità; per questo non potevo pencolare in parabolica e scattavo di quarantacinque gradi, in culo alla prospettiva.

Mangiare mangiavo solo pillole. Di continuo, senza requie. Non c’era un attimo della giornata in cui non fossi in cerca di quelle robine bianche, fragili e allineate come le briciole di Pollicino. Asservito al bisogno, la peggiore schiavitù, quella che ti trascina nei mercati, in attesa di padroni che ti faranno la cortesia di comprarti.(1) Chi invece non ti userà nessuna cortesia sono dei cosi colorati, dei piccoli fantasmi, che se ti prendono ti ficcano i loro spunzoni negli occhi e t’ammazzano lì sul posto.

Tra le pillole ce ne sono alcune speciali e rare: sono quelle che lampeggiano. Quando riesco a ingollarne una arriva il meglio perché per pochi secondi i fantasmini cambiano di colore, s’impauriscono, diventano blu di fifa, e, quando riesco a incontrarne uno, lo faccio fuori solo a toccarlo. Da una ventina d’anni però di pilloline lampeggianti non se ne trovano più e questo rovesciamento dialettico non può più avere luogo: i fantasmini rimangono sempre invulnerabili e intoccabili. Mi ci viene la rabbia e lo sconforto ma non c’è modo di intaccarli, impaurirli o almeno renderli innocui.

Eppure non è la fine della storia, le pilloline bianche sono lì, sempre più lustre e decantate: la mia è fame antica e il bisogno morde.

Quando mi sono svegliato ero avvolto in un lenzuolo blu, tirato fin sopra la testa, in una casa in Occidente.

(1) Simon Linguet, Théorie des lois civiles, 1767.