Ieri er sor Wittgenstein ha proposto ar sor Fassino di lasciar perdere tutto e di affidare il partito a un nuovo gruppo dirigente di under 50 o 40 – una nuova classe politica che QP sintetizza cinicamente in tre, quattro comportamenti praticati dai giovani che frequentano le sezioni di partito.
Quel che segue è un episodio piccolo, non so nemmeno quanto c’entri, ma questo m’è venuto in mente.
Da ggiovane, avevo 24 anni, ho fatto il vice-sindaco del mio comune – un piccolo comune della Toscana di 4500 abitanti. Ero stato eletto nella lista dei “Progressisti” (PDS+PRC) e il 98% degli eletti era alla prima esperienza amministrativa: era il 1994. Due anni dopo Prodi e l’Ulivo vincevano le elezioni politiche e, alcuni mesi dopo, l’input (mica ho detto diktat, eh) che arrivò dall’alto fu di aprire tutte le giunte comunali, provinciali e regionali ai popolari che fossero eventualmente rimasti all’opposizione: si vota un documento comune, si cambiano un po’ di deleghe o d’assessori e tanti saluti a come hanno votato i cittadini. Io, insieme a altri tre consiglieri comunali (1 piddiessino e due rifondaroli, tutti più o meno ggiovani) in disaccordo con la suddetta manovra uscimmo dalla maggioranza, rimanendo però in consiglio comunale fino alla fine del mandato. Alle elezioni successive non mi sono ricandidato e ho lasciato perdere comune, partiti et similia.
La riproduzione del potere in Italia sono anni che avviene sempre più per via aristocratica: i termini sono di Gaetano Mosca e risalgono a parecchi anni fa, ma io son sempre qui che ci penso. E non agisco. E delego o mi dimetto. E poi m’incazzo. E questo forse è il male peggiore.