E lo scorniciamento! | episodio 5
Per capire che cosa è il framing, questa ulteriore connotazione dell’agenda setting e di come comprendere e reagire a questi incorniciamenti dell’informazione e dei contenuti, la quinta puntata è orgogliosa di ospitare Antonio Pavolini, analista dei media, blogger e pioniere del podcasting italiano e autore di un recentissimo libro su su come difendersi da chi può stabilire cosa è rilevante per noi.
Con Antonio abbiamo parlato di attualissimi casi di framing, della ruota del criceto e del presidio dell’attenzione – la vera risorsa scarsa, cercata e grattata come l’oro del Klondike – di ristoranti giapponesi e street-food pompeiani. Delle energie di tanti blogger e sperimentatori disperse nella waste land della social tv, di Hossein Derakhshan e di un web che assomiglia a una televisione un po’ più sofisticata.
Alla fine si è parlato anche della stagione eroica del podcasting e delle sue più recenti evoluzioni – con il rischio della fissazione per il personal branding o dell’occupare solo per moda uno spazio – in assonanza con il fatto che, così come per la prima blogosfera, anche il primo podasting non aveva come scopo fare soldi, ma al massimo, quello di creare una rete di relazioni attraverso i racconti.
La puntata dura ventisette minuti, comprese due citazioni de cinema: buon ascolto!
Credits
Distribuzione e licenza
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“C’era una volta la blogosfera” è un podcast ideato, registrato e montato da Strelnik, pubblicato e distribuito sotto una licenza Creative Commons – Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International (CC BY-NC-SA 4.0)
Linkografia
– Antonio Pavolini, “Ho scoperto un nuovo mestiere: lo scorniciaio” | via Medium
– Antonio Pavolini, “Unframing | Come difendersi da chi può stabilire cosa è rilevante per noi” | Ed. Ledizioni
– “Straordinaria scoperta a Pompei, ritrovato un Termopolio intatto” | via Repubblica
– Paolo Beria, Vardhman Lunkar, “Presence and mobility of the population during the first wave of Covid-19 outbreak and lockdown in Italy”| via Science Direct
– Hossein Derakhshan, “Iran’s blogfather: Facebook, Instagram and Twitter are killing the web” | via The Guardian
– Editor: Myself, il blog di Hossein Derakhshan
– Antonio Pavolini “Pendodeliri | la prima serie“ | via archive.org
– James Williams, “Scansatevi dalla luce | Libertà e resistenza nel digitale” | Ed. effequ
– Kaiten-zushi | via Wikipedia
Musica, suoni e citazioni
– Bertolt Brecht canta “Die Moritat von Mackie Messer” | via UbuWeb
– Martijn de Boer (NiGiD), “Sudden Retropia” | via ccMixter
– Citizen Kane 1941 – 10 Best Quotes| via God Loves Movies Too – YouTube
– Citizen Kane (1941) Official Trailer #1 – Orson Welles Movie | via m340830 – YouTube
– L’immagine di copertina del libro “Unframing” è di Fabio Di Corleto.
Trascrizione dell’episodio 5: “E lo scorniciamento!“
(Grazie a Catia Bianchi)
(qui potete anche scaricarla/visualizzarla in formato pdf | 153 KB)
[musica] Bertolt Brecht canta “Die Moritat von Mackie Messer”
Strelnik – “Cane di ruga productions” presenta: “C’era una volta – e c’è ancora – la blogosfera”.
Io sono Strelnik, e questa è la quinta puntata.
Un podcast sui blog nel 2021, perché?
[citazione da “Quarto potere” di Orson Welles]
Emily: “Really Charles, people will think…”
Charles Foster Kane: “What I tell them to think”
STRELNIK – Ebbene sì, questa puntata si apre con la voce – qualcuno l’avrà sicuramente riconosciuta – che è quella di Orson Welles nei panni del magnate dei media Charles Foster Kane in quel capolavoro che è “Quarto potere”, “Citizen Kane”, anno 1941. E la frase, la frase che Charles Foster Kane dice è la risposta che dà alla sua nuova moglie, che vuole costringere a fare la cantante lirica nonostante lei sia stonata, e che gli dice: “ma così la gente penserà…”, e lui risponde: “soltanto quello che voglio io”. Ora, oggi non parliamo di cinema, non fatevi fuorviare da questa introduzione, e parliamo – più in particolare – di come difendersi da chi può stabilire cos’è rilevante per noi. Dal 1941, da “Quarto potere”, insomma, il rapporto fra media e formazione del consenso si è fatto molto più complesso e pervasivo, e per comprendere oggi il funzionamento dell’industria dei media occorrono osservatori e strumenti adatti ai tempi. Uno tra i più utili, tra questi strumenti, per me è di sicuro “Unframing”, l’ultimo libro di Antonio Pavolini, uscito a fine ottobre dell’anno appena trascorso per l’editore Le Edizioni. Antonio lo si conosce sia come valente e lucido analista dei media, sia come blogger fin dai primi anni zero, e negli stessi anni anche come uno dei primi podcaster italiani, con il suo Pendodeliri; e anche per queste ragioni, e per farci chiarire che cos’è “lo scorniciamento”, ci si è parlato oggi ancora più volentieri.
Signore e signori, Antonio Pavolini.
Prima di tutto, ciao e grazie per aver accettato di registrare la tua voce su questo podcast giovane e traballante.
ANTONIO PAVOLINI – Beh, grazie a te.
STRELNIK – Le domande che volevo farti su “Unframing” e come difendersi da chi può stabilire che cos’è rilevante per noi sarebbero veramente tante, proviamo a sintetizzartele nei punti che sembrano a noi più interessanti, il libro è tutto interessante. La prima è far sapere che cos’è il framing, l’unframing, questo modo di tradurlo che qualcuno ha trovato – non so se sei stato tu o qualcuno che durante una presentazione… – che è “scorniciare”, ha trovato questo termine che è veramente molto bello, quindi Antonio Pavolini può essere uno scorniciatore…
ANTONIO PAVOLINI – Allora, guarda, in realtà l’attualità ha presentato negli ultimi giorni un esempio ancora più attuale rispetto a quello che faccio nel libro, e cioè l’esodo che c’è stato dalle grandi città, in particolare da Milano, in occasione della inaugurazione delle zone rosse natalizie. Uno studio del Politecnico proprio di Milano ha chiarito che, esattamente come a marzo, anche in questo caso i numeri di questo esodo sono stati assolutamente consueti, normali, e non c’è stata nessuna variante statistica tale da giustificare i pezzi sull’esodo. Però, siccome si crea l’aspettativa che ci siano le persone che se ne vanno da Milano, e si immagina – perché si gioca sugli immaginari – che siano tutti meridionali, e si sa che lanciare un articolo di questo tipo nel tritacarne dei social avrebbe generato, come puntualmente è accaduto, la diatriba tra i meridionali ingrati e i settentrionali, che invece avrebbero bisogno diciamo di vedere in qualche modo ricircolare nell’economia quello che comporta avere una città piena, ok?, insomma è stata costruita ad arte una polemica sul nulla, giocando proprio su queste leve emotive, identitarie e su questi pregiudizi. In sostanza, il giornalismo in quella circostanza ha deciso di inquadrare in un framing, in una cornice, un fatto che… insomma, già decidere che quel fatto è una notizia è controverso e fra parte dell’agenda setting, è una scelta editoriale, e dovremmo cercare di capire se in qualche modo contribuisce all’essere informati delle persone; ma una volta sbarcato il tema, che magari eventualmente uno può dire “ok, adesso iniziano le zone rosse, cerchiamo di raccontare che cosa succede”, però il problema è il framing, è come tu lo inquadri, e il taglio che è stato dato era quello che invece di darci degli strumenti per interpretare il momento, che sicuramente aveva bisogno di interpretazioni e quindi di intermediazioni editoriali – o da parte di professionisti, che sono giornalisti o anche responsabili di palinsesti, eccetera, ne parlo nel libro – invece di fare quel mestiere, di cui tanto avremmo bisogno, è stata creata una cornice che era quella che avrebbe abilitato poi la famosa “ruota del criceto”, la ricondivisibilità del contenuto, perché avrebbe generato engagement, avrebbe fatto liberare dati alle piattaforme digitali e avrebbe generato click, soprattutto sui portali dell’informazione. Ecco, questo è il framing, e nel libro io cerco di spiegare in che modo sia l’industria potrebbe intravedere da uno spioncino un futuro in cui non ha più bisogno di fare l’esatto contrario di ciò che proclama di fare, cioè informazione, sia poi… siccome non è che possiamo star qui con le mani in mano ad aspettare che qualche illuminato editore si inventi un modello diverso, nell’ultimo capitolo c’è una serie di suggerimenti pratici su come praticare noi, in questa fase in cui non siamo protetti – per intenderci – da questo tipo di meccanismo, noi individualmente, come persone che si informano o che in generale usano i mezzi di comunicazione, come fruitori, quello che possiamo fare per rompere la nostra… diciamo cornice in cui cercano di scaraventarci.
STRELNIK – “La ruota del criceto” l’ho trovata un’espressione ottima per inquadrare la velocità e l’assurdità e la circolarità, anche, di noi consumatori e nello stesso tempo persone a cui vengono estratte tutti i giorni una serie di informazioni in maniera che – tu sottolinei bene – molte volte è inconsapevole, da qui l’esigenza anche – come dicevi tu – di una media literacy, cioè di un’alfabetizzazione dei singoli. E siccome questo ha a che fare – la libertà di informazione e come si fa informazione – con i presupposti fondamentali di uno Stato democratico, tu dici che sarebbero le istituzioni pubbliche stesse che dovrebbero essere le prime a disincentivare questa ruota del criceto. Mi è venuto in mente quei ristoranti giapponesi – tra l’altro non ci sono mai stato, quindi non posso nemmeno fare la figura di quello che è un uomo di mondo – in cui c’è il nastro trasportatore, si chiama kaiten–zushi – l’ho cercato, per dirtelo bene – c’è un nastro trasportatore… tu ti sedi al bancone e c’è un nastro trasportatore che continuamente ti fa passare di fronte tante pietanze, e tu scegli ogni tanto. Però è proprio il contrario dello slow food, ossia è sempre un cibo che cerca di rubarti l’attenzione rispetto a quell’altro. E dal punto di vista… Se vogliamo rimanere nella metafora culinaria, nella nostra dieta, inconsapevolmente, siamo esposti tutti i giorni a questo continuo nastro trasportatore che ci porta davanti… la lentezza e la vittoria sulla smemoratezza sono due punti che secondo te son fondamentali, no?, perché?
ANTONIO PAVOLINI – Allora, intanto grazie per la metafora culinaria, che riutilizzerò alla prima occasione utile. Allora, il discorso è recuperare non solo la capacità di scegliere il contenuto, cosa che in ogni istante l’industria dei media cerca di evitare che accada, cioè che siamo noi a scegliere, e chiaramente l’industria ha interesse a evitare che siamo noi a scegliere per il semplice motivo che nel frattempo i contenuti sono diventati infiniti; questo problema non c’era quando potevi scegliere tra tre canali nazionali di Stato e magari tre canali grossi privati, oppure tra pochi quotidiani, no? Quando tu puoi scegliere teoricamente tra una infinità di cose, a quel punto il problema dell’industria dell’informazione è concentrato… cioè, il principale sforzo è evitare che il lettore scelga, ma non solo il tema, ma scelga anche i tempi. I tempi sono scelti dai media. E qui c’è un altro esempio molto attuale, che è questa scoperta di questa meravigliosa… cos’era?, ristorante–cucina a Pompei, che è stata lanciata, guarda caso, dal Gruppo GEDI – per non fare nomi – GEDI Digital fa uno splendido lavoro con questi video, insomma è finito sulla prima pagina… sulla home prima di Repubblica e poi anche di tanti altri portali che l’hanno ripreso – perché alla fine è anche questo il meccanismo che si vuol abilitare – il 26 dicembre, che è un giorno in cui non hai nient’altro per presidiare l’attenzione, fondamentalmente. Ma se tu vai a vedere quel video, quel video ha un editing e una richiesta di approvazione di loghi di istituzioni, tradizionalmente e anche giustamente lente – Pompei, la Sovrintendenza, il Ministero dei beni culturali, eccetera – che ovviamente era un video che ha una gestazione abbastanza lunga, e lo e posso dire per esperienza, e la notizia del ritrovamento, ovviamente, è stata calcolata per cadere il 26, no? Posso dire che non c’è niente di mefistofelico in tutto questo…
STRELNIK – Certo.
ANTONIO PAVOLINI – Ma ti dimostra che cosa? Quello che, non a caso, proprio il direttore de La Repubblica, Maurizio Molinari, disse tempo fa a una… mi pare al Festival dell’Economia, all’auditorium, si era appena insediato alla direzione di Repubblica e disse: “la prima cosa che dobbiamo diventare è una specie di casa cinematografica, che vuol dire intanto più narrazione e meno informazione, ma anche e soprattutto siamo noi che decidiamo i tempi delle uscite. Quindi, non solo che cosa è rilevante per le persone, ma che cosa le persone dovranno vedere e fruire nel momento dell’anno in cui fa comodo a noi per dominare l’agenda”. Cioè, bisogna capire anche un po’ questi meccanismi industriali; io nel libro provo a dare sia qualche strumento per capire il meccanismo industriale che spinge una macchina dell’informazione a confezionare qualcosa in un certo modo e in un certo tempo, e poi però anche, diciamo, l’uomo della strada – dove naturalmente ci sono anche io, perché non è che io abbia sempre questa malizia quando apro il giornale o quando guardo un telegiornale – cioè degli strumenti per… non dico proprio ridefinire e riscrivere la dieta mediatica, ma insomma riuscire a guardare le cose sempre con questo campanellino della scelta, no?, di chiedersi “ma sono davvero io che ho scelto questo contenuto? Sono io che ho scelto adesso di guardare questo programma televisivo?”, se già ti poni queste due domande, hai già fatto un bel po’ di strada.
STRELNIK – Per semplificare un po’ troppo il tuo discorso, invece molto approfondito, e riagganciarlo a qualcosa di molto attuale, mi hai fatto molto bene capire la differenza tra search e discovery, che io allargherei addirittura, per non essere troppo talebano, a link versus share, cioè il link proprio href, sai quello vecchio dell’html… Quando decidi di mettere un link, però lì è questione di una piattaforma editoriale su cui sei, il CMS, te decidi di scrivere un pezzettino di codice che va poi a copincollare quello lì, te lo metti lì e sai che mandi un messaggio che… se sei su un blog magari ci sono i pingback, i trackback…, questi meccanismi, e lì gli fai sapere in quel modo lì, magari il giorno dopo, quando gli arriva o quando lo legge. Lo share è semplicissimo, lo share, dal punto di vista proprio del design, dell’interfaccia utente, è qualcosa di veramente subitaneo, tant’è che puoi fare lo share senza nemmeno aver letto il contenuto.
ANTONIO PAVOLINI – E aggiungo anche che molte volte chi scrive l’articolo lo scrive nella piena consapevolezza che la persona leggerà il titolo, con l’obiettivo di cliccare senza leggere l’articolo. L’articolo è una foglia di fico per reggere il meccanismo industriale del clickbaiting, che riguarda solo il titolo.
STRELNIK – Questo mortifica tantissimo, è una cosa che l’ottima ricostruzione dell’industria dei media dice a proposito del canale di ritorno, e cioè di questa rivoluzione che poteva esserci e che non è stata completamente soffocata, però, rispetto – diciamo così – al cyber–utopismo degli anni Novanta adesso si è molto mitigata, cioè è stata molto restrinta. Però l’Open Internet, l’Open Web esiste ancora, no?, e questa importanza del canale di ritorno rispetto al canale di andata… forse si aspettava che Facebook o Twitter o i social ridefinissero e valorizzassero il canale di ritorno, ma non gliene è fregato assolutamente nulla di attuare un minimo di cesura forte rispetto ai media tradizionali che stavano spodestando, ma non gli interessa nulla fare gli editori; cioè, Internet di adesso vorrebbe assomigliare a una televisione un po’ più sofisticata, che è mortificante, per un navigatore della fine degli anni Novanta è così.
ANTONIO PAVOLINI – Molti non se ne sono accorti che Internet sta cercando di diventare una TV più sofisticata, ma perché? Perché abbiamo attraversato tutte le fasi di questa trasformazione, diciamo dal Cluetrain manifesto alla situazione di oggi, però c’è chi invece…, che ha coniato questa espressione, cioè “Internet sta diventando una TV più sofisticata”, che si è svegliato all’improvviso uscendo dal carcere, ed era un blogger iraniano, Hossein Derakhshan, che è frequentatore abituale – per fortuna, adesso che è in libertà – del Festival del giornalismo di Perugia, che finì in carcere per la sua attività di blogger della prima era, quella del backlink, quella delle cose che dicevi prima, poi esce dal carcere, pensa di poter ricominciare e magari trovare anche strumenti molto più potenti per fare… per smuovere parecchio le acque – come era riuscito a fare lui, pagandone le spese, naturalmente – e invece trova un modo completamente anestetizzato da quel famoso pulsante share che dici tu, poi ci possiamo mettere anche tante altre, cose la dittatura del like…, ci possiamo mettere tanti altri temi, che sono tra l’altro approfonditi in altri libri. Il mio libro non vuole essere certo esaustivo di tutto quello che va o di quello che non va nell’industria dei media vecchi e nuovi in questo momento, però, insomma, se tu ti svegli dall’oggi al domani, in una sorta di “Ritorno al futuro”, trovi un mondo in cui non ti riconosci più. Tante persone invece non si sono rese conto che sono in una televisione un po’ più sofisticata – quella di oggi – con l’aggravante di esserci stati fin dall’inizio. Io addosso, in tutto questo processo, molta più responsabilità a chi ha fatto tutto il percorso e non si è accorto dov’è finito rispetto a quelli che scrivono con le K, in modo un po’ sgrammaticato – che si sono riversati su Facebook diciamo dal 2007, 2008, 2009 – e contro cui tipicamente si scatena il…, come dire?, l’anatema contro le invasioni barbariche, no?
STRELNIK – Sì.
ANTONIO PAVOLINI – Cioè, non puoi aspettarti da quella generazione – che ha subito la TV che conosciamo, la TV commerciale per trent’anni – di arrivare su Internet e improvvisamente scrivere di Kierkeggard e di Kant, non te lo puoi aspettare da loro; ma da chi, invece, aveva la alfabetizzazione informatica, la media literacy, conoscere tutti i passaggi… I grandi primi sperimentatori, i pionieri, i blogger, i podcaster, quelli che andavano su FrienFeed, quelli che andavano su Tumblr, cioè tutti quelli che hanno provato tutti gli strumenti, adesso ritrovarsi lì a fare la social TV di Sanremo e scrivere qualcosa ogni minuto perché c’è il Festival di Sanremo, questo, francamente, io lo trovo abbastanza imperdonabile.
STRELNIK – O comunque, se si riduce molto a quella cosa lì.
ANTONIO PAVOLINI – È molto bello… Scusami.
STRELNIK – Sì.
ANTONIO PAVOLINI – Questa intervista, siccome va su un podcast, mi permette di tenere dei toni molto più informali e anche di dire cose un po’ più… un po’ più forti rispetto a quando mi chiama tipo Radio Uno, che succede, chiaramente, molto più raramente, per dare la giusta dimensione al fenomeno “Unframing”, però finalmente mi ritrovo molto più in casa e posso parlare un linguaggio che mi è più consono.
STRELNIK – Io son contentissimo, anche perché, veramente, il libro di Antonio è molto…, te lo dico sinceramente, è molto spietato, è lucidamente spietato contro… Ma è giusto, perché è una grande lezione quella che stanno avendo in generale i grandi… Poi tu nomini anche degli esempi ottimi, invece, di fare informazione di tipo diverso, non puntando semplicemente al presidio dell’attenzione e a questo meccanismo, appunto, della ruota del criceto di cui abbiamo parlato. Tra le vie d’uscita, o comunque tra le forme di…, guarda, dico “resistenza digitale” perché il tuo libro io lo leggo complementare in bundle – si dice così? – con quello di James Williams, “Scansatevi dalla luce”, che è “Libertà e resistenza nel digitale”; già nel titolo e sottotitolo: lì c’è “Libertà e resistenza”, qui “Come difendersi”, sono complementari, perché lì c’è un’analisi più della parte non italiana…
ANTONIO PAVOLINI – Perché la nostra, la situazione italiana è particolare, cioè noi non possiamo dire di essere… di avere un rapporto neutro col mondo dei media, con tutto quello che è successo negli ultimi cinquant’anni: abbiamo avuto il conflitto di interessi, abbiamo avuto una TV pubblica praticamente svuotata e riempita con gli avanzi della televisione privata, sia dal punto di vista manageriale, che delle risorse, che del modello di business, perché funziona esattamente come una TV privata. Insomma, la situazione italiana è peculiare, e tra l’altro – lo dico anche nel libro – da noi ancora sono… che so, è Mondadori che compra Banzai, cioè sono i vecchi che comprano i nuovi bravi, mentre nel mondo anglosassone, come sappiamo… che so, è Comcast, cioè l’operatore di telecomunicazioni, che arriva e si compra MBC, Vivendi e Universal Pictures. È vero che quello è un mondo dove l’economia, quando sgomita, smuove le montagne e invece qui da noi… it’s all in the family, come si dice, cioè è una cosa molto più all’acqua di rose, forse è questo il vero meccanismo, però che la situazione italiana sia peculiare e che l’Italia abbia un problema di svuotamento proprio della democrazia dal punto di vista della formazione del consenso, della distorsione del meccanismo e della formazione del consenso, da noi sono successe cose che con Trump si sono viste vent’anni più tardi.
STRELNIK – È vero.
ANTONIO PAVOLINI – Questo mi verrebbe da dire, no? Quindi l’Italia è stata un po’… paradossalmente una spia distopica del regresso che ci avrebbe accolto, che avrebbe accolto tutto il pianeta, tutti i populismi che sappiamo.
STRELNIK – Sul podcasting, Antonio, io ti chiedo gli ultimi cinque minuti, perché siccome nel capitolo dedicato al podcasting – che io ho divorato subito, appena ho preso il tuo libro – ci sono un paio di assonanze con il mondo dei blog, la creazione dei contenuti, i posti meno abitati e quindi non questa ossessione per il ritmo di una narrazione. E poi c’è una cosa molto bella – che vorrei che tu ci ridicessi qui, che rimanga traccia digitale e audio anche – che tu ricostruisci in maniera sintetica molto bene, che è la storia del podcasting, partendo proprio dalla tua esperienza individuale di Pendodeliri, quindi proprio di early adopter, di pioniere del podcasting in Italia, e di come si è evoluta la prima ondata, il 2015 e…
ANTONIO PAVOLINI – Allora, nel 2003 io avevo un blog, come tante persone, però non potevo scrivere perché il tempo che volevo usare era quando mi trasferivo in auto, in questo lungo pendolarismo, e così registravo dei file audio che si trovano mettere come allegato di Splinder, c’era questa piattaforma, io avevo Pendodeliri su questo blog e quindi le persone leggevano questi laconici titoli “Post numero 1”, “Post numero 2”…, c’era solo il titolo.
STRELNIK – Molto Dogma.
ANTONIO PAVOLINI – Esatto. Cliccavano e davanti al computer – visto che non c’era nient’altro da fare, non come oggi – erano anche capaci di ascoltarsi il file audio, erano veramente pochi a farlo nel 2003. Poi nel 2004 Adam Curry…, tecnicamente Dave Winer, cambiando il protocollo RSS e introducendo l’RSS2.0, che permetteva gli allegati multimediali, quindi prima Dave Winer che fa questo aggiornamento, fondamentalmente, del protocollo, e poi Adam Curry, che era un popolare DJ di MTV ai tempi, insieme danno grande… diciamo pubblicità questa possibilità di abbonarsi solo ai file multimediali. Quindi, tu avevi questi primi lettori che avevamo, che erano l’iPod – da qui il nome del podcasting – e le persone, anche avvantaggiandosi del fatto di poter scaricare a casa e poi ascoltare off–line in mobilità, e quindi decidendo i loro tempi – anche questo è importante – usando soprattutto i tempi morti, iniziavano ad ascoltare delle cose che non si potevano sentire da nessun’altra parte, soprattutto perché la scena dei primi sperimentatori erano tutti sperimentatori indipendenti, podcaster indipendenti, come me, che raccontavo le periferie della Pontina, una specie di… mi verrebbe da dire Sacro GRA ante litteram solo audio, fatto però senza la capacità di narrazione, naturalmente, di quello straordinario documentario. Ebbi rapidamente decine di migliaia di abbonati, ma perché eravamo pochi, non perché fosse ‘sto capolavoro, parliamoci chiaro. Poi però è arrivata la radio, ha capito lo strumento e, giustamente, noi indipendenti siamo stati scalciati nelle classifiche dalle più popolari trasmissioni della radio, posso dire quasi giustamente. Poi che cosa è successo? È successo che l’ondata dei social network ha creato nelle persone che hanno una maggiore sensibilità rispetto al problema di “oddio, forse siamo travolti da contenuti e vorremmo avere più capacità di scelta”, che si è creata la necessità di andare di nuovo a cercare delle aree libere da questo meccanismo di rotazione continua dei contenuti – il ristorante giapponese di cui parlavi prima tu – e quindi i più sensibili hanno ricominciato ad ascoltare podcast internazionali, e tra questi, tra gli ascoltatori più pesanti, molte persone hanno detto “ma perché? Adesso lo posso fare anch’io”, tra l’altro nel frattempo tecnologicamente era diventato molto più semplice: non c’era più da scrivere il feed RSS a mano, c’erano delle piattaforme fantastiche e c’erano anche delle possibilità di distribuzione molto più ampie, come Spotify, Spreaker, eccetera. Ora, in questa seconda ondata di podcaster indipendenti abbiamo degli esempi straordinari, di grande valore e che io cito anche nel libro, senza far torto a nessuno ho preso… diciamo ho colto fior da fiore e ne ho citati alcuni, hanno quasi tutti il merito un po’ di rompere le tassonomie del tollerabile nel linguaggio, quindi affrontano temi difficili, tipo la discriminazione di genere, cose che, insomma, sono fuori sono, ovviamente tagliate fuori dal mondo un po’ rassicurante dei media tradizionali. Quindi, quella stessa fascia di lettori un po’ più sofisticati va a cercare questo tipo di contenuti in una arena che sarebbe ancora libera dal punto di vista tecnico, non ci sono piattaforme chiuse, non esiste diciamo la piattaforma chiusa del podcasting, però il problema è che – come dico nel libro –molti in realtà, a differenza della primissima fase eroica e pioneristica, usano questa arena semplicemente come uno spazio da occupare e per fare personal branding, che è una operazione abbastanza simile a quella che viene fatta da tante persone con le newsletter, per esempio, o con i video su Youtube. Quindi, bisogna avere anche un po’ la malizia di capire quand’è che quella persona sta dicendo quelle cose perché vuole invadere lo spazio e quand’è che veramente dietro c’è, invece, una sincera passione, per esempio per una battaglia militante, oppure per una disciplina… che so, artistica, musicale, letteraria… Cioè, quando c’è della passione e quindi poi della competenza…, non che le cose vadano sempre insieme, però di solito la premessa per la competenza è che ci sia la passione, è difficile che sviluppiamo la competenza per qualcosa che non ci piace. Una volta capito qual è la parte davvero interessante di questo mondo, ti offre una idea di quello che potrebbe essere ancora Internet fuori dagli schemi della ruota del criceto di cui parlavamo prima.
STRELNIK – Voglio chiudere questa intervista veramente interessante con una nota di ottimismo, perché, appunto, la seconda parte del libro ci offre tante possibilità di usufruire della rete e degli strumenti della rete senza, appunto, farci ingabbiare, incorniciare. Io devo ringraziare Antonio anche per altre due cose: primo, perché ha nominato – parlando della vittoria sulla smemoratezza – dell’importanza di Internet Archive, si nomina sempre poco; e poi per un’altra questione tecnica ti volevo ringraziare, questo proprio tra me e te: che mi hai consigliato, un paio di anni fa, il registratore e il microfono da usare per il podcasting. Antonio, grazie ancora per la disponibilità e per tutto quello che ci hai detto. A presto, speriamo a presto.
ANTONIO PAVOLINI – Grazie a te, a prestissimo. Vedrai che avremo ancora da divertirci, nonostante i capelli bianchi.
STRELNIK – Certamente sì. Grande!
ANTONIO PAVOLINI – Ciao, ciao ciao.
STRELNIK – Ciao.
[citazione dal trailer di “Quarto Potere” di Orson Welles]
Orson Welles: “Mike, give me a mic”.
Fine dell’episodio.