I giardini digitali

Digital gardens | Maggie Appleton

Mi verrebbe da chiamarli orti ipertestuali, ma facendo così complicherei ancora di più la metafora vegetale con cui vengono indicati.

Facciamo un passo indietro: nel primo episodio di “C’era una volta la blogosfera”, Flavio Pintarelli ci ha ricordato i giardini digitali:

[i] cosiddetti “digital garden”, cioè dei siti che sono a metà fra dei blog e dei progetti dove, invece, l’intervento del programmatore, di chi scrive il codice, è un po’ più importante e che di fatto cercano di curare dei contenuti così come si coltivano dei giardini; quindi si creano dei microcosmi tematici.

Flavio Pintarelli | “C’era una volta la blogosfera” | Epiodio 1

Seguendo e approfondendo i link contenuti nell’ottimo articolo di Riccardo Coluccini dedicato a questi spazi virtuali, ho letto e apprezzato questa “A Brief History & Ethos of the Digital Garden” di Maggie Appleton che vale la pena leggere per capire la storia e l’evoluzione del termine e delle sue applicazioni nel Web.

Partendo dagli Hypertext Gardens: Delightful Vistas di Mark Bernstein, saggio-ode alla libera esplorazione di Internet del 1998, passando – dopo circa dieci anni di quiete – per la sua riemersione in alcune discussioni su Twitter riguardo l‘estirpazione delle erbacce e la manutenzione dei contenuti digitali per arrivare al 2015 e al keynote di Mike Caufield, divenuto poco dopo il saggio “The Garden and the Stream: A Technopastoral” che getta le fondamenta dell’attuale concezione dei giardini digitali.

Per Caufield non è tanto una questione di strumenti: il giardinaggio digitale è un modo differente di pensare il nostro comportamento online rispetto alle informazioni.
Un modo che è distante dai flussi legati ai tempi frettolosi delle timeline dei social, delle chat, della casella di posta in arrivo – pure della paginazione dei post di un blog: Curation comes before a chronological list, scrive Joel Hooks descrivendo il suo digital garden – nei quali la precarietà delle informazioni delle ultime 24 ore non permette la stratificazione e la connessione della conoscenza e delle relazioni – nonostante i thread di Twitter siano un recente tentativo di recuperare questa dimensione di cura a dispetto del puro flusso.

Non è che sei passivo all’interno di un flusso – scrive Caufield – puoi anche essere attivo. Ma le tue azioni lì dentro – i tuoi post sul blog, le menzioni, i commenti sul forum – esistono in un contesto che è ridotto a una semplice sequenza temporale di eventi.

Il giardino digitale è il nostro contrappeso, sintetizza Maggie Appleton.
Un contrappeso all’invadenza della forma timeline e della streamification imperante da quasi un quinquennio; un contrappeso alla velocità e alla caducità di quella marea perpetua di contenuti che ci arriva addosso ogni volta che scorriamo una timeline.

Ma è possibile trovare e usare un’interfaccia che non abbia come home page l’organizzazione temporale di contenuti? Come si costruisce un giardino digitale?
Al momento bisogna nerdizzarsi un po’ e provare a usare il codice html o imparare a usare applicazioni online che non sono semplicissime. C’è chi sta spingendo perché il Gutenberg project – l’editor a blocchi di WordPress – permetta sempre di più alle persone di fare in modo che il proprio sito/blog sia il più personale/personalizzato possibile senza dover essere un esperto di codice html o css. La distanza da colmare però è ancora abbastanza: la manutenzione lenta dei giardini di fronte all’immediatezza di gestione di una timeline sembra – e forse è – ancora qualcosa di anacronistico e un po’ bizzarro. Tipo aver voglia di brutalismo sovietico o dei siti con gli i-frame del 1998.

La loro sparuta presenza non va tuttavia dimenticata. Perché ci è utile in altri modi: è come se, vagabondando per una città, tra edifici architettonicamente tutti uguali ci imbattessimo in un quartiere o un agglomerato di case dall’aspetto totalmente diverso e con vie d’accesso e percorribilità alternative.
Una pausa visiva dentro un pattern dominanate: per riprendere l’efficace analogia di Coluccini nel citato articolo su Vice, il piano regolatore delle interfacce web attualmente è dominato da Facebook Instagram, Medium, Twitter e gli altri social media. Ma le zone libere dal design della persuasione esistono: per adesso hanno anche la forma ibrida di giardini digitali dove la caoticità controllata dell’ipertesto, la cura dei contenuti e la libertà di navigazione prevalgono sulla sincronicità di una timeline e sulle decisioni di un algoritmo.
Schiacciati tra le ombre di un mega-condominio, sono fragili e precari come gli orti urbani: fanno affidamento sullo spirito di learning-by-doing e di aggregazione dei suoi primi giardinieri, ma sono timidi segnali di vie di fuga e cambiamento possibile.

Di giardini digitali e streamification parleremo ancora nei prossimi episodi del podcast. Molto presto, partendo da radio, musica e blog.