Lo sponsor che t’ammazza | incubo n.1
Ero molto più vecchio di adesso e s’era dentro a un’agenzia di comunicazione, di mattina.
Io arrivavo in ritardo, col giacchetto di pelle con le tasche piene di ritagli di giornale, appunti, foglietti, post-it biancicati, mezze sigarette, filtrini e tabacco sparso che sapeva di cuoio.
La project-manager mi faceva un cenno come a dire: toh, è venuto anche oggi, io mi sedevo, aprivo il portatile, scaricavo la posta e poi mi alzavo e andavo alla sua scrivania dove c’era un mio amico grafico, molto bravo, che gli faceva vedere le bozze che aveva preparato per una marca famosa (sembrava proprio la Coca Cola). Era roba buona e la manager me la passava in mano senza guardarmi negli occhi.
Allora sbottavo: “Sempre sponsor. Cerca lo sponsor. Ma lo sponsor ce l’hai? E chi ti sponsorizza? Le sinergie! Il ritorno sull’investimento, il target, il briefing. E il budello delle vostre mamme?”
Alcuni mi guardavano e ridevano, un altro si vergognava da morire, la manager rimaneva con la faccia all’ingiù, un emoticon di donna, un vestito nuovo tutte le mattine.
Io continuavo: “Ma tutti i soldi che paghiamo allo stato dove cazzo finiscono? Chi cazzo se li piglia?”
Il grafico più giovane mi fissava interessato, sapeva che lavoravo lì da parecchi anni, lui era arrivato da un mese scarso, poteva essere mio figlio. Guardava i miei capelli molto corti e bianchi e il mio giacchetto nero di pelle.
Ha aspettato che finissi, si è alzato e mi è passato accanto: “Caffè?” m’ha chiesto.
“Sembri un personaggino di Brecht” m’ha poi confidato vicino alla macchina del caffé.
“Ah sì?” gli ho risposto io. “E te chi saresti?
“Io sono uno di quei bambini che dissiperanno l’incubo del vecchio mondo” e m’ha strizzato l’occhio, offrendomi una sigaretta.
Quasi non ci credevo, ero felice, così felice che mi veniva da urlare, ma mi sono svegliato e sono andato a comprare “il manifesto” che faceva trentotto anni precisi.