“There is nobody in this country who got rich on his own. Nobody.”
– Elizabeth Warren
“Lo slogan che ci ripetiamo tra noi Wu Ming è che bisogna cercare di salvarsi il culo il più collettivamente possibile.”
– Wu Ming 2
Mi sembra che oggi il termine self-made man, più che insistere sull’autostima e la fiducia nella propria capacità di forgiare da solo il proprio destino, venga usato principalmente per definire qualcuno che non ha bisogno di regole e norme condivise, che non necessita del supporto della comunità o delle opportunità date dal contratto sociale – che anzi vede come ostacoli alla piena realizzazione della sua missione, quasi superomistica.
Il suo significato originale, nato per indicare la poliedrica e geniale figura di Benjamin Franklin, è progressivamente slittato verso coloriture più individualiste e egoiste, acquisendo un’accezione da uno contro tutti o da uomo solo al comando distante dall’umanesimo illuminista e allo spirito di servizio che guidavano il pensiero e le azioni dell’uomo giustamente considerato uno dei padri fondatori degli Stati Uniti.
Il self-made man odierno sembra ormai rappresentato da colui che conta solo sulla sua capacità imprenditoriale, il suo talento e la sua abnegazione e non ha bisogno d’altro, se non di completa libertà d’azione. Indivisualista convinto e acerrimo acerrimo di lacci e lacciuoli, detesta i sussidi governativi e sembrerebbe l’anti-statalista per eccellenza.
O almeno così oggi si dipinge.
Aiuti pubblici: male, anzi benissimo
Un esempio attualissimo di questa concezione contemporanea del self-made man – ormai lontana anni luce rispetto a quella di Benjamin Franklin – potrebbe essere rappresentato da Elon Musk. Le sue condizioni di partenza – almeno quelle economiche – non erano sicuramente di indigenza. Il divorzio dei suoi genitori, il carattere difficile del padre e il pesante bullismo subìto a scuola sono fattori che avrebbero potuto tagliargli le gambe e che Musk ha invece superato.
Pur essendo dotato di una indiscutibile intelligenza e pur ammettendo che abbia perseguito i suoi scopi con una tenacia ferrea, il fatto che ce l’abbia fatta da solo, arricchendosi unicamente grazie alle proprie capacità di muoversi nel libero mercato, senza aver bisogno di finanziamenti o appalti pubblici, sembra reggere poco.
Leonardo Bianchi, in un articolo per Valigia blu, ha analizzato come il miliardario alla guida del DOGE abbia invece nei contratti pubblici una delle fonti primarie della propria ricchezza:
Tuttavia, secondo un’inchiesta del Washington Post condotta da un team di giornalisti, lo stesso impero economico dell’uomo più ricco del mondo si è sviluppato attraverso il sostegno di almeno 38 miliardi provenienti da contratti governativi, prestiti agevolati, sussidi e crediti fiscali. Aiuti pubblici che hanno avuto un ruolo cruciale nella crescita delle aziende di Musk. Le prime tracce di questi finanziamenti, scrivono i giornalisti del Washington Post, risalgono a più di 20 anni fa.
L’articolo prende in esame il caso emblematico di Tesla, mostrando poi come altre aziende di Musk – da Space X a X Corp – abbiano prosperato e prosperino grazie a contratti di questo tipo: leggetelo tutto, è un ottima fonte di informazioni per capire il lato statalista, poco conosciuto, del padrone di X.
La pigrizia, l’immoralità e altri stereotipi
Un altro esempio vivente utile a sfatare il mito del farcela da soli tira in ballo l’attuale vice-presidente degli Stati Uniti, J.D. Vance.
“Il mito per cui J.D. Vance è arrivato sulla alla vetta con le proprie forze” è il titolo di un articolo pubblicato sul Times a luglio dell’anno scorso: l’autrice è la scrittrice Bobi Conn che ha mostrato come l’ascesa di Vance alle massime cariche dello stato non sia avvenuta solo perché ha saputo smarcarsi e superare una situazione di partenza difficile e dolorosa. Conn è nata nel Kentucky, nel cuore dell’Appalachia e, come Vance, e ha alle spalle una famiglia afflitta da gravi problemi di dipendenze, violenza domestica, povertà e disagio mentale. La scrittrice ricorda a Vance come entrambi abbiano potuto studiare grazie a borse di studio pagate da altri:
…mentre il suo memoir ha trovato eco nei lettori per la sua narrazione tipicamente americana di un self-made man, la realtà è che Vance non è arrivato fin qui da solo. Ce l’ha fatta grazie alle politiche e ai programmi che supportano la classe operaia. Infatti, è una delle poche cose che io e lui abbiamo in comune.
Ho potuto frequentare il Berea College, un college gratuito qui nel Kentucky orientale dove ogni studente lavora e che ha lo scopo dichiarato di dare un’istruzione superiore agli abitanti degli Appalachi con un basso reddito, proprio come ha istruito uomini e donne, neri e bianchi, fino dal 1855, anno della sua fondazione. Vance ha frequentato la Yale Law School con una generosa borsa di studio, un vantaggio che alcune delle migliori scuole della nostra nazione offrono agli studenti con un reddito basso.
Il memoir di cui parla Conn è “Elegia americana”: pubblicato nel 2016, è il libro autobiografico della giovinezza di Vance a Middletown, in Ohio, e della storia della sua famiglia, originaria del Kentucky, contea di Breathitt, negli Appalachi. Vi si racconta di come a causa della pesante tossicodipendenza della madre, Vance sia stato cresciuto dai nonni – anche loro con problemi di alcolismo – riuscendo grazie ai propri sforzi a studiare, laurearsi in legge a Yale per poi arruolarsi nei Marines.
Citando ancora Bobi Conn:
Vance nelle sue memorie ha contribuito a perpetuare gli stereotipi sui “poveri pigri” quando ha parlato della sua frustrazione per aver scoperto, a 17 anni, che ci sono adulti che ricevono il sussidio che osano possedere cellulari e acquistare cose che i buoni pasto non coprono (alcol e sigarette, per esempio). Tuttavia, sembra essere consapevole anche di un altro punto che è fondamentale per questa discussione, sebbene non sia un argomento popolare nel discorso politico: le nostre scelte sono plasmate dalla nostra cultura e nessuna delle questioni di classe che critica può o dovrebbe essere attribuita all’immoralità.
Gli Appalachi rispondono
Oltre a non riconoscere l’utilità dei programmi di welfare, “Elegia americana” è fortemente criticabile per il disprezzo che riversa sulle persone degli Appalachi che bolla come allergiche al lavoro e al sacrificio, svogliate e incapaci di abbandonare i vizi che non possono permettersi. L’accusa di immoralità è forse la peggiore di tutte, tanto da aver generato numerose risposte per contrastarne la rozzezza e l’infondatezza.
Ne cito solo alcune:
“JD Vance and I share Appalachian roots. He’s just the latest to exploit the region for personal profit” di Meredith McCarroll;
“What You Are Getting Wrong about Appalachia” di Elizabeth Catte;
“What JD Vance gets wrong about Appalachia” di Micah Clark Moody.
Da ricordare le parole di Barbara Kingsolver, cresciuta anche lei nel Kentucky e autrice del magnifico Demon Copperhead, opera che le è valsa il Premio Pulitzer e che degli Appalachi e della sua storia ha dato tutt’altra versione: intervistata nel podcast “Armchair Expert” (minuto 48:32) riguardo al libro di Vance dice:
La descrizione che ha dato della popolazione mi fa davvero arrabbiare. Non ha menzionato la povertà strutturale. Non ha descritto la storia di questa regione. È stata una auto-esaltazione della grandezza del risultato personale raggiunto. È l’esaltazione del farcela da soli (bootstrapping): sì, ho frequentato uno dei college dell’Ivy League e, se lavori duramente, puoi farcela anche tu. Ma in realtà, e questa è la cosa più straziante, è che non ha fatto altro che confermare gli stereotipi sull’Appalachia.
Significativo, infine, “Appalachian Reckoning: A Region Responds to Hillbilly Elegy”, un libro che è una vera e propria reazione collettiva al libro di Vance, oltre che una testimonianza della vitalità intellettuale e delle possibilità di sviluppo presenti e attive nella regione appalachiana.
L’Appalachia è una regione da sempre trattata come una colonia interna da sfruttare al massimo: dalle compagnie minerarie che ne hanno fatto la loro terra di conquista – i minatori venivano pagati con monete coniate direttamente dalle compagnie che potevano essere spesi solo nei negozi e nell’affitto delle abitazioni, entrambe di proprietà delle coal companies – a quelle farmaceutiche che qui hanno sperimentato l’ossicodone, causando la più grande e letale crisi degli oppiodi di tutti gli Stati Uniti.
E la soluzione per l’Appalachia sarebbe, secondo Vance, quella di farcela da sola: bootstrapping, tirarsi su dai propri stivali, un’espressione che arriva dal barone di Münchhausen che racconta di essersi salvato dall’affondare in una palude tirandosi su con le cinghie dei propri stivali. Un personaggio che aveva ironicamente nel proprio stemma il motto “Mendace veritas”.
Finisco con un’ultima considerazione sul mito dell’uomo che si è fatto da solo e sul prezzo che spesso questo comporta, in special modo sugli effetti collaterali che ci si lascia dietro quando – più che una legittima aspirazione a emanciparsi da una condizione di miseria – si persegue con cieca spietatezza la ricchezza e il successo ad ogni costo.
Mi viene in mente l’ultima strofa de “L’odore” di Giorgio Gaber e Sandro Luporini:
Io che conosco tanta gente
son venuto su dal niente
c’ho una bella posizione
non è giusto che la perda
mi son fatto tutto da me
mi son fatto tutto da me
mi son fatto tutto da me.
Mi son fatto tutto di merda.
(Immagine “Miner working with Consolidated Coal Company, Kentucky” | via Library of Congress)