Doom, Quake e Half-Life sono stati i primi e gli unici tre videogiochi sparatutto con i quali ho giocato: alla fine degli anni ’90, la scoperta di Internet (e le sue praterie elettriche da esplorare) e la nausea (reale: dopo mezz’ora mi girava la testa e mi veniva da vomitare) mi fecero abbandonare definitivamente quel tipo di giochi in prima persona.
Abbandonare Half-Life senza averlo completato mi dispiacque per il modo originale in cui la storia era incastonata nell’azione, senza le pause in cui di solito venivano inseriti brevi filmati per andare avanti con la trama. Dietro a questa tecnica – usata per la prima volta in uno sparatutto – c’era l‘ingegno di Marc Laidlaw, scrittore di fantascienza, ingaggiato dalla Valve Software per sviluppare la narrazione di quello che – grazie anche all’art direction di Viktor Antonov purtroppo scomparso da poco – diventerà uno dei videogiochi più famosi del mondo.
Oggi Marc Laidlaw si è gettato, anima e synth, su altri processi creativi, mantenendo la stessa curiosità intellettuale e voglia di sperimentare. Nel caso vogliate saperne di più, nella sezione Music Discovery di questa settimana su Humans vs Robots ho recensito una sua nuova creatura sotto al titolo “Quando mamma crede al grande complotto”.
Lisa Bosi ha raccontato la loro storia nel documentario “Going Underground”: 78 minuti che ripercorrono le imprese marce, provocatorie e furbe dei Gaz Nevada. Si erano formati dall’ala musicale presente nelle stanze occupate di via Clavature, 20 a Bologna, dove facevano impazzire – ma anche divertire – il povero Filippo Scòzzari che dell’appartamento era uno degli occupanti fin dall’inizio quando, al termine di un corteo, insieme a un gruppo di autonomi sardi, sfondato il portone, si installò a disegnare nell’appartamento che diventerà la Traumfabrik – la fabbrica dei sogni – riportata con entusiasmo anche nelle prime opere bolognesi di Paz.
“There is nobody in this country who got rich on his own. Nobody.” – Elizabeth Warren
“Lo slogan che ci ripetiamo tra noi Wu Ming è che bisogna cercare di salvarsi il culo il più collettivamente possibile.” – Wu Ming 2
Mi sembra che oggi il termine self-made man, più che insistere sull’autostima e la fiducia nella propria capacità di forgiare da solo il proprio destino, venga usato principalmente per definire qualcuno che non ha bisogno di regole e norme condivise, che non necessita del supporto della comunità o delle opportunità date dal contratto sociale – che anzi vede come ostacoli alla piena realizzazione della sua missione, quasi superomistica. Il suo significato originale, nato per indicare la poliedrica e geniale figura di Benjamin Franklin, è progressivamente slittato verso coloriture più individualiste e egoiste, acquisendo un’accezione da uno contro tutti o da uomo solo al comando distante dall’umanesimo illuminista e allo spirito di servizio che guidavano il pensiero e le azioni dell’uomo giustamente considerato uno dei padri fondatori degli Stati Uniti. Il self-made man odierno sembra ormai rappresentato da colui che conta solo sulla sua capacità imprenditoriale, il suo talento e la sua abnegazione e non ha bisogno d’altro, se non di completa libertà d’azione. Indivisualista convinto e acerrimo acerrimo di lacci e lacciuoli, detesta i sussidi governativi e sembrerebbe l’anti-statalista per eccellenza. O almeno così oggi si dipinge.
Aiuti pubblici: male, anzi benissimo
Un esempio attualissimo di questa concezione contemporanea del self-made man – ormai lontana anni luce rispetto a quella di Benjamin Franklin – potrebbe essere rappresentato da Elon Musk. Le sue condizioni di partenza – almeno quelle economiche – non erano sicuramente di indigenza. Il divorzio dei suoi genitori, il carattere difficile del padre e il pesante bullismo subìto a scuola sono fattori che avrebbero potuto tagliargli le gambe e che Musk ha invece superato. Pur essendo dotato di una indiscutibile intelligenza e pur ammettendo che abbia perseguito i suoi scopi con una tenacia ferrea, il fatto che ce l’abbia fatta da solo, arricchendosi unicamente grazie alle proprie capacità di muoversi nel libero mercato, senza aver bisogno di finanziamenti o appalti pubblici, sembra reggere poco. Leonardo Bianchi, in un articolo per Valigia blu, ha analizzato come il miliardario alla guida del DOGE abbia invece nei contratti pubblici una delle fonti primarie della propria ricchezza:
Tuttavia, secondo un’inchiesta del Washington Post condotta da un team di giornalisti, lo stesso impero economico dell’uomo più ricco del mondo si è sviluppato attraverso il sostegno di almeno 38 miliardi provenienti da contratti governativi, prestiti agevolati, sussidi e crediti fiscali. Aiuti pubblici che hanno avuto un ruolo cruciale nella crescita delle aziende di Musk. Le prime tracce di questi finanziamenti, scrivono i giornalisti del Washington Post, risalgono a più di 20 anni fa.
L’articolo prende in esame il caso emblematico di Tesla, mostrando poi come altre aziende di Musk – da Space X a X Corp – abbiano prosperato e prosperino grazie a contratti di questo tipo: leggetelo tutto, è un ottima fonte di informazioni per capire il lato statalista, poco conosciuto, del padrone di X.
La pigrizia, l’immoralità e altri stereotipi
Un altro esempio vivente utile a sfatare il mito del farcela da soli tira in ballo l’attuale vice-presidente degli Stati Uniti, J.D. Vance. “Il mito per cui J.D. Vance è arrivato sulla alla vetta con le proprie forze” è il titolo di un articolo pubblicato sul Times a luglio dell’anno scorso: l’autrice è la scrittrice Bobi Conn che ha mostrato come l’ascesa di Vance alle massime cariche dello stato non sia avvenuta solo perché ha saputo smarcarsi e superare una situazione di partenza difficile e dolorosa. Conn è nata nel Kentucky, nel cuore dell’Appalachia e, come Vance, e ha alle spalle una famiglia afflitta da gravi problemi di dipendenze, violenza domestica, povertà e disagio mentale. La scrittrice ricorda a Vance come entrambi abbiano potuto studiare grazie a borse di studio pagate da altri:
…mentre il suo memoir ha trovato eco nei lettori per la sua narrazione tipicamente americana di un self-made man, la realtà è che Vance non è arrivato fin qui da solo. Ce l’ha fatta grazie alle politiche e ai programmi che supportano la classe operaia. Infatti, è una delle poche cose che io e lui abbiamo in comune. Ho potuto frequentare il Berea College, un college gratuito qui nel Kentucky orientale dove ogni studente lavora e che ha lo scopo dichiarato di dare un’istruzione superiore agli abitanti degli Appalachi con un basso reddito, proprio come ha istruito uomini e donne, neri e bianchi, fino dal 1855, anno della sua fondazione. Vance ha frequentato la Yale Law School con una generosa borsa di studio, un vantaggio che alcune delle migliori scuole della nostra nazione offrono agli studenti con un reddito basso.
Il memoir di cui parla Conn è “Elegia americana”: pubblicato nel 2016, è il libro autobiografico della giovinezza di Vance a Middletown, in Ohio, e della storia della sua famiglia, originaria del Kentucky, contea di Breathitt, negli Appalachi. Vi si racconta di come a causa della pesante tossicodipendenza della madre, Vance sia stato cresciuto dai nonni – anche loro con problemi di alcolismo – riuscendo grazie ai propri sforzi a studiare, laurearsi in legge a Yale per poi arruolarsi nei Marines. Citando ancora Bobi Conn:
Vance nelle sue memorie ha contribuito a perpetuare gli stereotipi sui “poveri pigri” quando ha parlato della sua frustrazione per aver scoperto, a 17 anni, che ci sono adulti che ricevono il sussidio che osano possedere cellulari e acquistare cose che i buoni pasto non coprono (alcol e sigarette, per esempio). Tuttavia, sembra essere consapevole anche di un altro punto che è fondamentale per questa discussione, sebbene non sia un argomento popolare nel discorso politico: le nostre scelte sono plasmate dalla nostra cultura e nessuna delle questioni di classe che critica può o dovrebbe essere attribuita all’immoralità.
La descrizione che ha dato della popolazione mi fa davvero arrabbiare. Non ha menzionato la povertà strutturale. Non ha descritto la storia di questa regione. È stata una auto-esaltazione della grandezza del risultato personale raggiunto. È l’esaltazione del farcela da soli (bootstrapping): sì, ho frequentato uno dei college dell’Ivy League e, se lavori duramente, puoi farcela anche tu. Ma in realtà, e questa è la cosa più straziante, è che non ha fatto altro che confermare gli stereotipi sull’Appalachia.
Significativo, infine, “Appalachian Reckoning: A Region Responds to Hillbilly Elegy”, un libro che è una vera e propria reazione collettiva al libro di Vance, oltre che una testimonianza della vitalità intellettuale e delle possibilità di sviluppo presenti e attive nella regione appalachiana.
L’Appalachia è una regione da sempre trattata come una colonia interna da sfruttare al massimo: dalle compagnie minerarie che ne hanno fatto la loro terra di conquista – i minatori venivano pagati con monete coniate direttamente dalle compagnie che potevano essere spesi solo nei negozi e nell’affitto delle abitazioni, entrambe di proprietà delle coal companies – a quelle farmaceutiche che qui hanno sperimentato l’ossicodone, causando la più grande e letale crisi degli oppiodi di tutti gli Stati Uniti. E la soluzione per l’Appalachia sarebbe, secondo Vance, quella di farcela da sola: bootstrapping, tirarsi su dai propri stivali, un’espressione che arriva dal barone di Münchhausen che racconta di essersi salvato dall’affondare in una palude tirandosi su con le cinghie dei propri stivali. Un personaggio che aveva ironicamente nel proprio stemma il motto “Mendace veritas”.
Finisco con un’ultima considerazione sul mito dell’uomo che si è fatto da solo e sul prezzo che spesso questo comporta, in special modo sugli effetti collaterali che ci si lascia dietro quando – più che una legittima aspirazione a emanciparsi da una condizione di miseria – si persegue con cieca spietatezza la ricchezza e il successo ad ogni costo. Mi viene in mente l’ultima strofa de “L’odore” di Giorgio Gaber e Sandro Luporini:
Io che conosco tanta gente son venuto su dal niente c’ho una bella posizione non è giusto che la perda mi son fatto tutto da me mi son fatto tutto da me mi son fatto tutto da me. Mi son fatto tutto di merda.
In raccordo di continuità con il post precedente, un altro esempio di come viene usata la tecnologia per raccontare la storia: siamo ancora dalle parti dei video interamente prodotti da intelligenze artificiali generative e diffusi su TikTok e YouTube.
Nelle ultime settimane su TikTok stanno ottenendo milioni di visualizzazioni alcuni video realizzati interamente con l’intelligenza artificiale che riproducono ambientazioni e situazioni storiche del passato: tra i più visti ci sono quelli realizzati da The POV Lab e Time Traveller POV – per chi, come me, non usa TikTok i sopracitati link puntano ai rispettivi profili YouTube.
I titoli dei video spiegano già tutto: per citarne due, “POV: You’re a kid in Egypt 1250 years before Christ” o “POV: You wake up in 1351 During the Black Plague”. Si tratta di video in stile POV (Point of view): per capirci, il punto di vista è lo stesso dei videogiochi sparatutto in prima persona o di quella categoria del porno in cui uno dei o delle performer regge direttamente la videocamera – e non fate finta di non sapere di cosa si tratta. Come spiegazione potrei anche citare il gonzo journalism di Hunter Stockton Thompson o la soggettiva nel linguaggio cinematografico, ma poi mi dicono che questo blog è troppo elitario* e allora vi bastino i primi due esempi e, anzi, per rimanere più sulla cultura di Internet contemporanea, vi lascio come riferimento anche l’apposita categoria dei meme. La durata dei video varia dai trenta secondi al minuto, il formato ideale per essere diffusi prima di tutto su TikTok e poi nella categoria “Shorts” di YouTube: ovvio che con minutaggi di questo genere, il loro scopo principale non può essere quello dell’approfondimento, quanto piuttosto quello emotivo. Yasmin Rufo della BBC ha sentito sia i creatori sia alcuni storici, evidenziando i pro e i contro che questo approccio comporta.
Tra gli storici intervistati la critica a questa tipologia di video è rivolta alle inesattezze e gli errori presenti nella rappresentazione visiva delle scene e, pur ammettendo che questo tipo di contenuti possono essere utii per stimolare e incuriosire le persone a interessarsi a un periodo storico, hanno sottolineato come le ricostruzioni storiche dovrebbero basarsi su ricerche approfondite e fonti verificabili. Tra le critiche mosse anche quella di non fornire nessuna fonte – un appunto sulla trasparenza delle fonti che avevo già evidenziato nel post precedente sul video dedicato alla memoria dei soldati neri nella guerra civile americana. Hogne, il ventisettenne norvegese creatore dei video di Time Traveller POV, ha ammesso che nei prossimi video potrebbe prendere in considerazione l’aggiunta dei link delle fonti da cui ha ottenuto le sue informazioni. Speriamo.
Tre miniature dei video dalla home del canale YouTube di The POV Lab
Altra considerazione è quella che, nonostante i video abbiano l’etichetta di contenuti creati da AI – come assicura Dan, il creatore inglese di POV Lab – leggendo i commenti, si osserva come ci siano persone non consapevoli di questo. Che questo dipenda dalla poca attenzione richiesta dalla fruizione dei contenuti TikTok o dalla pigrizia di chi guarda, non è comunque una critica campata in aria. L’attendibilità e la verifica delle fonti non sembra essere in cima alla lista di chi passa da un video a un altro, completamente diverso, nel giro di meno di pochi minuti: l’infinite scrolling promosso dalle piattaforme produce anche questo effetto, non è una novità e non finirà presto. La storica dell’architettura Amy Boyington, molto attiva nella diffusione della storia attraverso i social media, spiega come l’aspetto suggestivo e sensazionale prevalga su quello dell’accuratezza storica e sintetizza così la sua analisi: “Sembra qualcosa uscito da un videogioco perché mostra un mondo che dovrebbe sembrare reale ma che in realtà è falso.”
Ora, visto che è stato menzionato, sarebbe da parlare di come si possa studiare e approfondire la storia attraverso un videogioco, ma lo faccio la prossima volta perché il post è già abbastanza lungo e non vi voglio certo stancare le pupille o sfiancare le sinapsi. O non voglio che il mio critico misterioso possa rincarare la sua dose e tacciarmi ancora di più di elitarismo culturale.
* chi me lo ha detto per ora non voglio rivelarlo, ma proviene da una fonte insospettabile e non so ancora quanto affidabile.
(Immagine di testa: frame dai video dei due canali YouTube già linkati nel post)
Qualche giorno fa mi imbatto in un canale YouTube che sforna una decina di video al giorno, quasi tutti riguardanti la storia americana. La durata varia dai 5 minuti alla mezz’ora. La prima cosa che mi viene in mente, dopo aver visto lo stile grafico delle miniature dei singoli video, è che si tratti di contenuti prodotti da un’intelligenza artificiale generativa. Per averne conferma, clicco sul link delle informazioni del canale, ma non trovo niente: l’unico dato a disposizione è la Georgia – quella negli USA – come paese di provenienza. Su chi sia l’autore e sui motivi che lo spingono a produrre questi video non si riesce a sapere nulla. Il canale si chiama Unreal History e nel momento in cui sto scrivendo sta pubblicando un nuovo video ogni tre ore.
Un video di fact-checking
Sbollita la rabbia e svanito lo sconforto che mi erano presi – perché per un mio video che vorrei pubblicare sono dieci giorni che ci sto lavorando di notte – trovo, attraverso una ricerca su Bluesky, un post di Kevin M. Levin, storico e insegnante di Boston, esperto di guerra civile americana che sul suo blog – o meglio sul suo profilo Subastack* – ha scritto del canale “Unreal History” e ha analizzato uno dei 1.200 e passa video pubblicati: “The Forgotten Monument: The Unfulfilled Promise of Black Civil War Heroes”. L’argomento del video analizzato è la memoria della guerra civile americana e, in particolare, un monumento, mai realizzato, che avrebbe dovuto ricordare il consistente contributo dato dalle truppe di soldati neri alla vittoria degli unionisti sui confederati. Il video vuole ricostruire le vicende del veterano nero nel tentativo divedere realizzato questo monumento a Washington D.C..
Il professor Levin ha pubblicato un video di una mezz’ora in cui, prima di tutto, ricostruisce la genesi di “Unreal History”: si tratta, come avevo intuito, di un canale dai contenuti interamente creati da un’intelligenza artificiale generativa. La pagina web che ospita le informazioni a riguardo credo sia a sua volta generata da una AI. Questa la descrizione fornita – traduzione mia:
“Unreal History” è una piattaforma interattiva unica progettata per reimmaginare e visualizzare eventi storici in contesti contemporanei, mescolando il passato con la tecnologia moderna e le norme sociali (sic). Questo viaggio immaginario è reso possibile da una dettagliata creazione narrativa e da immagini visive, trasportando gli utenti in linee temporali storiche alternative in cui gli eventi hanno preso una piega diversa.
Al di là di ogni considerazione sull’utilità o l’importanza di uno strumento simile, nessuna di queste informazioni compare sul canale YouTube di “Unreal History”, così come non esiste nessun link alla pagina dell’intelligenza artificiale usata. Il rischio che chi fruisce di questi video non abbia la voglia o la capacità di cercare sulla Rete più informazioni credo sia molto alto. E questa non è una buona cosa, almeno secondo me.
Venendo al video analizzato, Kevin M. Levin mette in evidenza un errore marchiano già nei primi trenta secondi: per l’AI, il nome del protagonista, il veterano che si battè per la costruzione del monumento, sarebbe William Carney Williams. Solo che non esiste una persona che si chiama così. Questo nome, a chi studia la storia della guerra civile americana, ricorda quello di William Carney, soldato nero famoso per aver salvato la bandiera del suo reggimento nella seconda battaglia di Fort Wagner nel 1863 quando, anche se le forze dell’Unione furono sconfitte, Carney per quel gesto fu insignito della Medaglia d’onore, la più alta onorificenza miltare negli Stati Uniti. Sicuramente un personaggio importante, ma che non si è mai battuto per erigere il momumento in questione. Il nome del veterano nero che invece, a fine guerra, si adoperò per la costruzione del monumento è George Washington Williams, soldato dell’Unione, poi avvocato, giornalista, ministro della chiesa battista, storico e autore del primo libro sul contingente nero attivo nella guerra di secessione. In somma: sembra che l’AI abbia operato una sorta di crasi tra i due nomi in questione, inventandosene un terzo che però non è mai esisitito. Essendo il nome del protagonista della vicenda, non è proprio un errore marginale.
Abbagli visivi e scelta delle fonti
Non vado oltre nell’esporre le altre imprecisioni storiche che il video contiene, per chi vuole scoprirle tutte rimando all’utilissimo fact-checking del video del professor Levin. Le due cose che voglio sottolineare riguardano la parte visiva e il senso generale della narrazione. Per quanto riguarda la prima: l’AI, a corredo della narrazione e della voce off che la porta avanti, mostra una serie di immagini totamente inventate che, la maggior parte delle volte, sono inaccurate o molto fantasiose, per rimanere gentili. Alcune volte poi saltano fuori quelle che si chiamano allucinazioni, veri e propri svarioni dell’intelligenza artificiale che produce risultati inaccurati, anacronistici o semplicemente assurdi. Anche se esiste una soddisfacente collezione di fotografie autentiche della guerra di secessione, nel caso di questo video, l’AI non ne ha tenuto conto e ha inventato da zero immagini e situazioni che in diversi casi sono fuorvianti o puramente ridicole come nei due frame riportati qui sotto.
Un animale alquanto bislacco e un mitra parecchio anacronistico
Una bandiera americana inusuale e uniformi di un altro secolo
L’altra considerazione è sulla narrazione: secondo Levin la narrazione generale non è sballata, il racconto è tutto sommato ragionevole, sono presenti citazioni che sono corrette e ben poste. Per chi si interessa e studia la guerra civile americana, però, si evince con facilità che tipo di domande (prompt) e parole chiave sono state poste all’intelligenza artificiale che, nel suo successivo scandagliare siti e fonti, ha scelto quelli ritenuti più popolari. Per Levin e per chi studia questa materia, è facile riconoscere nel racconto di questo video le tesi di “Race and Reunion”, un libro dello storico americano David W. Blight che descrive come la rimozione della parte afro-americana e l’attenuazione e la minimizzazione del tema centrale della schiavitù siano stati volutamente usati per poter arrivare a una riconciliazione (reunion) tra Nord e Sud, ridipingendo in questo modo la guerra civile come un conflitto tra due schieramenti di soldati bianchi in lotta solo per la gloria e il valore militare. In “Race and Reunion” Blight ricorda come, per esempio, teorie negazioniste come quella della “Lost Cause” abbiano avuto per decenni una diffusione e un’influenza enorme, penetrando nella cultura, nei racconti e nei manuali di storia degli Stati Uniti del Sud.
Kevin M. Levin ci dice che il libro di David Blight è un’opera validissima, è il libro da cui partire per studiare l’argomento – ho scoperto che si è meritatamente aggiudicato il Frederick Douglass Book Prize per il miglior libro sulla schiavitù – ma è un’opera uscita nel 2001, quasi venticinque anni fa. Nel frattempo la letteratura sull’argomento si è arricchita di numerosi altri contributi. Altri studiosi e studiose hanno ampliato, rivisto e aggiornato analisi e ipotesi sia sulla riconciliazione, sia sulla cancellazione della memoria dei soldati neri. Di questa ricchezza della letteratura e della ricerca storica però l’intelligenza artificiale non ha tenuto conto, limitandosi a proporre la narrazione più diffusa sull’argomento. Questo non è avvenuto certo per colpa sua, ma perché chi ha posto le domande non ha ritenuto opportuno cercare e includere queste nuove fonti.
Questo post, voglio dirlo chiaramente, non è un atto d’accusa né tanto meno una demonizzazione delle intelligenze artificiali generative usate a fine di divulgazione storica. Questi strumenti possono essere molto utili, bisogna tuttavia vedere come vengono usati e per quali scopi. Quelli del canale in questione, a pensare male e vista la freqenza di pubblicazione, mi sembrano molto orientati a fare numeri, sia come visualizzazioni sia come abbonati. L’accuratezza e la trasparenza delle fonti mi sembrano lasciate in secondo piano. Faccio un esempio concreto: se la fonte principale usata per il racconto della guerra civile è il succitato libro di David Blight, non sarebbe stato utile e onesto inserirlo dentro i titoli di coda del video o lasciarne traccia nella descrizione? Prima ancora di questo, come già detto, il non scrivere nel proprio canale che si tratta di video interamente generati da AI mina fortemente l’autenticità della fonte e la sua attendibilità. E la responsabiltà di questa scelta è totalmente umana. È un discorso ripreso anche da Levin nella parte finale del suo video che cito, traducendolo al volo:
Questo è un chiaro promemoria del fatto che abbiamo davvero bisogno di dedicare un po’ di tempo, tutti noi, a pensare a quali fonti affidarci e perché. E penso che valga soprattutto per i nostri studenti. […] Se sei un insegnante, fai il possibile per aiutare i tuoi studenti a navigare su Internet. E ancora, come consumatori di storia, come consumatori di informazioni, stiamo attenti (let’s be vigilant – in originale). Perché qui stiamo parlando di che cosa significhi essere cittadini: viviamo in una democrazia e le democrazie prospererano solo quando riusciamo a raggiungere una sorta di accordo su cosa è affidabile e quali sono sono le informazioni degne di fiducia.
Un sano scetticismo anche di fronte alla magia dell’animazione
Munirsi di un sano scetticismo e di pensiero critico – per usare ancora le parole di Levin – ci aiuta nelle esplorazioni online nel verificare quello che, tra le millemila fonti digitali a nostra disposizione, leggiamo, ascoltiamo o vediamo,. E, a proposito di vedere, voglio chiudere questo post citando brevemente un altro canale YouTube scoperto in un altro post del professor Levin, ancora sulla guerra civile americana, ancora sull’intelligenza artificiale generativa: si chiama History in Motion. A differenza di “Unreal History”, questo canale dichiara l’uso dell’intelligenza artificiale per rendere animate alcune fotografie scattate in tempi in cui non esistevano le immagini in movimento. L’effetto finale è impressionante: in “Veterans Brought to Life | American Civil War” si osservano, seppur per pochi secondi, veterani unionisti della guerra civile americana mentre si stringono la mano, oppure tre prigionieri confederati parlare tra loro mentre aspettano di essere trasferiti in un campo di prigionia. O, ancora, un gruppo di soldati neri allineati in attesa di una foto o di partire per il fronte. Lo scopo, in questo caso, è puramente emotivo, non c’è nessun tipo di ricostruzione storica da raccontare, le immagini non sono inventate ma sono tratte da quelle originali. Grazie a una magia resa possibile da algoritmi complessi e reti neurali, acquistano una nuova dimensione capace di restituire momenti storici reali in un modo fluido colorizzato, vivo.
Anche in questo caso, come direbbe Kevin M. Levin, “esiste una linea sottile tra i miglioramenti che ci aiutano a esplorare fotografie come queste in modo più approfondito e creativo e i modi che trasformano la storia in pura finzione.” Sta sempre al nostro sano scetticismo e alla nostra capacità critica saper trovare la strada giusta per muoverci nel “brave new world” dell’intelligenza artificiale. Non abbiamo altra scelta: le AI generative non faranno che migliorare nella verosimiglianza e nelle loro capacità, a noi il compito di saperne fare un buon uso.
* su questa cosa che molti blog chiudono o vengono sospesi perché chi li scrive lancia una propria newsletter e si trasferisce su Substack è un po’ di tempo che vorrei scriverci qualcosa. Siccome seguo molte persone che prima scrivevano su un blog e adesso lo fanno lì, se trovo il tempo di chiedergli il motivo, ci faccio un post.
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