Libero Montanari – un amico che ha più fantasia di Pessoa nel trovare e affibbiarsi nomi nuovi – sta scrivendo su Facebook una serie di post che ricostruiscono la scena punk hardcore e metal ascolana, partendo dai primi anni Ottanta e citando opere e compagni di strada. Per non lasciarli disponibili solo sulla piattaforma di Zuckerberg, ho scritto a Libero Montanari chiedendo il permesso di ripubblicarli qui in questo post, man mano che usciranno. (per fare i precisi e i didascalici: il titolo del post ricalca la dicitura che ha usato Libero nei suoi post sul social, a sua volta omaggio e calco di This Is Boston, Not L.A.)
Si fa fatica a pensare che una piccola città possa avere o abbia potuto avere una scena interessante.
Ma qualche giorno fa, rimettendo ordine fra le mie cose, mi son passati fra le mani tanti di quei dischi, di quelle vecchie cassette, tanti di quei vecchi gruppi punk, hardcore e metal più o meno incasinati, che non ho potuto allontanare l’idea di ricostruirla, quella scena, raccogliere in un cd le produzioni di quelle bands e poter dire: questa era Ascoli nel Piceno, non Los Angeles.
Facciamo una prova con la vita reale, come se Internet non esistesse.
Fai conto che esci di casa e incontri uno o una che non hai mai visto. Ti ci metti a parlare cinque minuti al bar, dal parrucchiere o in mezzo alla strada e quello o quella, senza nemmeno essersi presentato, comincia a dirti che sai, esistono delle sostanze rilasciate in cielo dagli aerei che noi respiriamo inconsapevolmente e è per questo motivo che siamo diventati così arrendevoli, passivi e obbedienti. Te ascolti, fai qualche faccia basita – scuola Stanis La Rochelle – poi mormori un “Mah, è un mondaccio” e te ne vai dove devi andare.
Poi, più tardi, quando torni a casa e parli con qualcuno – moglie/marito, figlioli, amici, vicini – manco ti viene in mente di dirgli che hai incontrato questa persona che ti ha rivelato un segreto di tali dimensioni. Perché a occhio ti sembra una stronzata e se proprio lo dici a qualcuno, fai prima una premessa dicendo che chi te lo ha detto sembrava molto convinto ma non ti ha fornito nessuna prova concreta del suo discorso. E specialmente non la conosci: nonostante all’apparenza sembrasse una persona ragionevole, non sai se puoi fidarti di lui/lei perché è la prima volta che la incontri. Se poi la cosa ti ha un minimo interessato, potresti chiedere in giro se qualcuno ha mai visto quella persona e se ha detto a qualche altro le stesse cose che ha detto a te. Potresti andare in una biblioteca e cercare qualche libro o notizia sull’argomento. Potresti rintracciare la persona in questione e chiederle maggiori informazioni, opporle alcuni dubbi.
E poi online.
Ti capita una notizia simile scritta in un post di un sito Internet mai sentito rilanciato da qualche social mai sentito e te che fai? Lo condividi aggiungendoci un tuo breve testo in cui ti incazzi per la pigrizia del popolo che non si accorge del sistema che lo fotte. Di spendere mezz’ora di tempo per fare un controllo minimo di quello che stai appoggiando e diffondendo non te ne frega nulla. L’importante è la dimensione sfogatoio, lo sguazzare nel confortevole confirmation bias e l’attesa dei like e delle faccine.
Certi giorni vorrei essere come Diogene di Sinope: stare sdraiato dentro una botte a parlare coi cani di filosofia e a insultare chi passa, trastullandomi l’uccello e cercando solo uno spicchio di sole o un umano onesto.
Poi mi chiama il mi’ figliolo per giocare ai Lego: gioco e mi passa.
Oggi e nei prossimi tempi chi passa da queste parti dovrebbe seguire subito il prossimo link e assaporare, parola dopo parola, questo post di Mafe.
Incollo qui il paragrafo che mi ha assestato meglio il colpo.
È stato anche l’anno in cui ho seriamente dubitato della possibilità di continuare a lavorare in un contesto apparentemente lontanissimo dal mio metodo e dai miei valori, per non parlare della possibilità di continuare a vivere in un paese così malmesso. Questo però vale per tutti, o almeno per tutti quelli che pensano che non si possa guardare dall’altra parte mentre altri soffrono. Anche in questo caso, forse insistere è stupido. Forse dovrei davvero andare via. Oppure mettere da parte understatement e timidezze e lottare per le cose in cui credo.
Mafe De Baggis, “Nessuno obbedisce, nessuno comanda”.
Oggi lo chiameremmo graphic journalism: riassumere tutta la prima Repubblica in una sola vignetta. Lo fece Andrea Pazienza molti anni fa, nella quindicesima puntata di “Pertini partigiano”.
A chi tenti uno scopri le differenze con l’oggi i miei migliori auguri.
– soppesa lo sforzo / tentando l’impresa ne valuti i costi / poi scegli la resa –
– Laghetto, “l’odore dei pomeriggi (quando li butti via)”, 2003
Fuori da un bar, di quelli abbastanza scrausi, un gruppo di ragazzetti e ragazzette mi coglionava. Erano seduti al tavolino accanto al mio, a meno di tre metri. Ero sicuro che mi guardassero, ammiccassero e ridacchiassero di me. Stavano per intere manciate di secondi tutti zitti, maschi e femmine, e poi ricominciavano a parlare, alcuni bisbigliando, altri indicando qualcosa oltre le loro spalle, verso me. Avevo più di settanta anni, ero mezzo sordo da un orecchio e stanco della giornata già alle tre del pomeriggio. Fosse stato per me, il sole avrebbe potuto andarsene giù tra mezz’ora. Il tempo di pagare il mio vino, andarmene a casa, togliermi le scarpe, stordirmi di qualcosa e andare in culo al mondo per un’altra nottata.
A un certo punto mi era sembrato che armeggiassero con qualcosa, forse un tablet che avevano sul tavolo. Cosa cazzo registravano? Una vena s’era mezza chiusa e avevo smattato: mi ero alzato, ero andato verso di loro e gli avevo urlato da molto vicino: “Io ho fatto la Pantera!”
Lo avevo gridato cercando di ricalcare lo stesso tono, lo stesso risentimento, la stessa rabbia del Bufalo quando alla fine della seconda stagione di Romanzo criminale urla tra i palazzi della Magliana: “Io stavo col Libanese!”
Quelli si erano zittiti, io avevo subito girato i tacchi e ero entrato nel bar per pagare. Dio boia, come mi sono rincoglionito, mi ero detto una volta appoggiato al bancone mentre il barista mi dava il resto. Che figura di merda che ho fatto con quei giovani. Penseranno che sembro uno sballato, anzi che sono uno sballato, come si diceva di Pippo. La Pantera è di cinquant’anni fa quando non erano nati nemmeno i loro genitori. Cosa vuoi che ne sappiano? Devo chiedere scusa, devo spiegargli che è stato un momento di rabbia e che mi dispiace di avere urlato.
Quando ero uscito, uno di loro mi era venuto incontro presentandosi come il registaslashproduttore di un talk show interattivo e dicendo che lui e i suoi host erano in diretta su Internet e che il mio instantrant era stato molto apprezzato. Forse lo sponsor del loro canale sarebbe stato disponibile – aveva continuato il registaslashproduttore – a condividere una parte delle revenues. A patto che le mie apparizioni continuassero a generare picchi di attenzione come era appena successo.
Il giovane avrà avuto sedici, diciassette anni. Parlava e si entusiasmava, suggeriva possibili evoluzioni del rant, ipotizzava interazioni del terzo tipo. Tutto per lo sbrocco di un ultrasettantenne vicino alla pensione e a un meritato periodo di semi-demenza. Alla fine m’era presa una tristezza così densa che avrei voluto sparire per autocombustione o liquefarmi all’istante come nel favoloso mondo di Amelie. Ero vecchio, avevo cercato di resistere allo spirito mercantilistico dei tempi per interi decenni ulcerandomi lo stomaco e salvando quel poco di inferno che inferno non era. In molte parti ero sbriciolato, coi ponteggi pericolanti e le ferite dello scontro quotidiano. Presto avrei fatto parte di quella schiera di atleti dal sorriso stanco che più di tutto temono il sale della vita.
Gli avrei risposto volentieri: “Te stai male bimbo, dammi retta. E il casino è che la colpa è anche mia.” Invece gli avevo detto: “Non so’ più er ghepardo de ‘na volta” e l’avevo lasciato ai suoi calcoli pubblicitari.
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