Foto di Napafloma-Photographe via Flickr

Scrivere (un blog), osservare, mettere da parte

(Traduco al volo questo post da Andy’s blog sul perché scrivere un blog nel 2025 – anche se non ti legge nessuno. Che rimanga come una capsula del tempo tra i miliardi di miliardi di bit, utile un giorno, forse mai).

Tanto tempo fa, il leggendario pubblicitario Bill Bernbach disse: “L’elemento più potente nella pubblicità è la verità”.
E allora diciamoci la verità: nessuno legge il tuo blog.
O almeno non quanti ti piacerebbe. Forse appena una manciata, forse nessuno. Tu sei lì che riversi i tuoi pensieri in un post, ceselli ogni frase, scegli l’immagine che ti sembra la più giusta – e poi silenzio. Nessun like, niente condivisioni, zero coinvolgimento.
Allora qual è il punto?
Ci sono due bugie che ci raccontiamo.

– Se io scrivo, qualcuno arriverà. Non succederà. Ci sono milioni di post là fuori. Internet è un vuoto infinito e il tuo blog è come sussurrare in una tempesta.
– Se nessuno mi legge, è una perdita di tempo.

È davvero così?

C’è un valore nascosto nello scrivere un blog. Esiste un vecchio detto Zen che dice: “Taglia la legna, porta l’acqua”. Non si fa per gli applausi, ma perché è necessario farlo.
Scrivere un blog impone chiarezza. Dà una struttura ai tuoi pensieri, affina il tuo punto di vista. Smetti di scrivere cose inutili perché – siamo onesti – stai scrivendo per te stesso. E se non riesci a catturare il tuo interesse, figuriamoci se avrai la possibilità di farlo con quello di qualcun altro.
Quando scrivi, pensi meglio. Quando pensi meglio, crei meglio.

Quindi qual è il vero pubblico a cui ti stai rivogendo?

Non stai scrivendo solo per l’invisibile pubblico di oggi. Stai scrivendo per:

– il te futuro. I tuoi post diventano una capsula del tempo delle evoluzioni della tua mente.
– la persona giusta. Forse un giorno qualcuno inciamperà nelle tue parole al momento giusto. E questo avrà costituito un cambiamento per lei.
– lo scrivere in sé. La coerenza batte la viralità. Cento post di approfondimento dureranno più a lungo di un singolo successo virale.

E c’è un’altra cosa. L’altra mia passione è la fotografia di strada. Che assomiglia un po’ a scrivere su un blog.
Tu cammini per la città, in mano la tua macchina fotografica. Vedi una scena, un attimo di luce, d’ombra, di umanità. Lo catturi.
Non importa a nessuno.
Ma non è per questo che l’hai fatto. Lo hai fatto perché hai visto qualcosa.

Stessa cosa per il blog. Scrivi perché pensi, perché osservi, perché hai bisogno di mettere qualcosa da qualche parte.
E se qualcuno lo legge? Bene. Sennò? Il lavoro è stato comunque fatto.
E questo è il vero punto.

(Immagine di Napafloma-Photographe | Flickr)

Michael Kerbow - Glade - Late Capitalism

Antichi sentieri: Lit/Ring

Qualche anno fa Yancey Strickler – uno dei co-fondatori di Kickstarter – descrisse, prima in una e-mail inviata a 500 persone e poi sul proprio blog, quella che chiamò la teoria della foresta oscura di Internet .
Partendo dal romanzo di fantascienza di Liu Cixin, “Il problema dei tre corpi”, Strickley analizzò lo stato del Web nel 2019 per spiegare alcune sue decisioni e condividere e i suoi dubbi. Ne traduco al volo qualche paragrafo:

Immaginati una foresta di notte. Nulla si muove, niente si agita. Questo potrebbe indurre a pensare che la foresta sia vuota, senza tracce di vita. Ma, ovviamente, non è così. La foresta pullula di vita. È silenziosa perché è notte, il tempo in cui escono i predatori. Per sopravvivere gli animali rimangono in silenzio.
Il nostro universo è una foresta vuota o oscura? Se è una foresta oscura allora solo la Terra è abbastanza stupida da inviare messaggi verso il cielo per annunciare la propria presenza. Il resto dell’universo conosce già il vero motivo per il quale la foresta rimane oscura. È solo una questione di tempo prima che anche il nostro pianeta lo comprenda.
Questo è anche ciò che Internet sta diventando: una foresta oscura.
Come risposta alla pubblicità, al tracciamento, al trolling e a altri comportamenti predatori ci stiamo ritirando nelle nostre foreste oscure, lontano dal mainstream.
[…]
L’Internet di oggi è un campo di battaglia. L’idealismo degli anni ’90 è svanito. L’utopia del Web 2.0 – quella in cui vivevamo nelle nostre bolle smussate e felici – è terminata con le elezioni presidenziali del 2016 quando abbiamo compreso che gli strumenti che consideravamo vitali potevano essere usati come armi. Gli spazi pubblici e semi-pubblici che avevamo costruito per sviluppare le nostre identità e comunità, e acquisire conoscenze, sono stati sorpassati da forze interessate a usarli per ottenere potere di vario tipo (di mercato, politico, sociale etc.)
Questa è l’attuale atmosfera del Web mainstream: un’incessante competizione per il potere. Mentre questa aumenta sia di dimensione sia in ferocia, un numero sempre maggiore di persone ha trovato rifugio nelle proprie foreste oscure, lontano dalla mischia.

La sua decisione, per non cadere vittima dei predatori notturni, fu drastica: abbandonare tutti i social network, rimuovendo anche le app dallo smartphone e escludendosi totalmente dal magmatico flusso di conversazioni. Smise anche di guardare la televisione e si ritirò nelle foreste oscure: le e-mail, i podcast e le newsletter; ambienti, secondo Strickler, in cui sentirsi più al sicuro, dove si può esporre con molto meno timore il vero sé. Altre persone seguirono lo stesso metodo, come una generazione di moderni aspiranti monaci.
Dopo un po’ di tempo, seppur realizzando come il suo benessere personale fosse molto migliorato, Strickler iniziò a avere dubbi sulla propria scelta. Coniò una seconda teoria – la teoria della pista da bowling di Internet – secondo la quale le persone stanno sulla Rete semplicemente per incontrarsi e, a lungo andare, i luoghi dove si incontrano non sono più importanti perché sono le interazioni che si sviluppano a essere la motivazione principale della propria presenza. L’analogia con il bowling è basata sul fatto che non tutte le persone che vanno a tirare giù birilli, mettendo a repentaglio il proprio metcarpo, lo fanno perché gli piace, ma perché è un modo per stare con altre persone.
Un altro dubbio che Strickler mise nero su bianco è che, se una parte consistente di popolazione online avesse abbandonato le piattaforme, ciò avrebbe lasciato comunque una vasta platea influenzabile da coloro che sarebbero rimasti, limitando anche la capacità di interazione e influenza di chi aveva deciso di lasciarle.
La frase che conclude il post è questa:

Se la foresta oscura non è già un luogo pericoloso, questi abbandoni potrebbero fare in modo che lo diventi davvero.

Sono passati più di cinque anni da quel post e la teoria della foresta oscura ha suscitato riflessioni, approfondimenti e critiche, diventando anche un libro di carta. I social network nel frattempo si sono smerdati molto e i passaggi proprietari e i cambi di policy degli ultimi mesi hanno sicuramente peggiorato la situazione. I dubbi di Strickler appaiono, almeno per me, ancora validi, ma hanno perso molto della loro valenza proprio per la situazione in cui versano le principali piattaforme social: se il significato e il tono delle piattaforme cambiano a seconda di chi le usa e che genere di bowlingviene fuori dipende da chi ci va, siamo al punto in cui la pista è volutamente preparata per giocatori a cui interessa più sopraffare totalmente gli avversari che non fare due chiacchiere o raccontarsi storie aspettando il proprio turno. Con gran soddisfazione dei proprietari del bowling che se la ridono dall’alto.

Ora: se siete arrivati/e a leggere fino a qui, oltre a ringraziarvi di cuore, è giunto il momento di svelare il motivo principale per cui ho voluto spendere tutte queste parole: credo che tra i luoghi protetti dai predatori della foresta oscura ci siano anche i siti web personali e i blog. Lo ha creduto anche Maggie Appleton che, in un’ottima rappresentazione grafica del Web, ha messo i feed rss allo stesso livello di newsletter e e-mail. Blog e siti web fanno parte di quel sottobosco, humus vivo e pulsante, ma poco visibile e poco collegato. Per questo ho pensato che ci sarebbe stato bisogno di sentieri, piccoli viottoli anche sotterranei, o vie del tabacco sabbiose e strette, che unissero queste realtà senza per forza passare dalle piattaforme che, appollaiate sui rami più alti, osservano e estraggono dati da chi si avventura dalla loro parti.

Per questo motivo è nato Lit/Ring, un webring dedicato ai libri e alla letteratura, un modo antico di collegare tra loro autori e autrici che sui propri siti e blog scrivono recensioni, pubblicano le loro opere o approfondiscono e portano avanti discussioni sulla scrittura, la lettura e la letteratura in generale. Non è di sicuro la killer application che rivoluziona il gioco, non ha la pretesa di sostituire le piattaforme: è solo un modo diverso di esplorare i contenuti della Rete, affidandosi non più a un algoritmo bensì a a un tocco umano, capace anche di sbagliare, ma anche di collegare mosso da motivazioni diverse dal dover fare numeri, accumulare like o sentirsi il signore o la signore del blastaggio. Leggetene meglio sul suo sito – o ring hub – quando avete tempo.
E provatelo: cliccando sulle frecce dei banner che trovate sui siti aderenti potete farvi un giro completo dell’anello composto dalle persone che finora hanno aderito e, se scrivete su un blog o o un sito vostro (anche) di libri e letteratura, contattateci se volete farne parte. È gratis e non vi serve a nient’altro che un po’ di tempo.
Forse così le foreste potrebbero essere meno oscure.

[piccola nota personale: quando ho letto la prima volta il post della teoria della foresta oscura mi sono ricordato che la stessa metafora l’avevo usata quattro anni prima per un seminario sulla selva dei social network. Era ancora un bosco e non ancora una foresta e le parti pericolose ancora non esistevano o erano piccole piante ancora a livello di sottobosco. O ero io che non volevo o sapevo vederle.]

(Immagine di copertina Michael Kerbow, collezione “Late capitalism | Glade”)

synth porn in the stalker Zone | Retromania blog

Connessioni, numeri e grattarsi

“Non smetterò mai di scrivere sul blog: è come un prurito che devo grattare – e non mi importa se è un formato superato.”

Sono parole di Simon Reynolds che, quasi un anno fa sul Guardian, scriveva come il blog rimanga per lui il formato perfetto: nessuna restrizione in termini di lunghezza o brevità – sia che si tratti di un meticoloso post di 3000 parole scelte con cura, sia che si tratti di un brogliaccio di meditazioni o fantasticherie. Nessuna norma sul tono e sulla consistenza del tono da usare. Nessuna schiavitù da orari e scadenze.
E, specialmente, la possibilità di divagare, scegliendo e approfondendo temi che non sono di stretta d’attualità, anche sconfinando in campi e argomenti poco conosciuti. (“I can meander, take short cuts and trespass in fields where I don’t belong.”)

Quella che invece è sparita – continuava Reynolds commentando e ampliando l’articolo anche sul suo Blissblog – è la comunicazione tra blog (“But what’s changed – what’s gone – is inter-blog communication”). Sono sparite le relazioni tra blog, insomma. Di conseguenza, le relazioni tra blogger.

L’articolo di Reynolds mi è tornato in mente quando stamattina ho letto il post di Flavio Pintarelli intitolato provocatoriamente “I blog non li legge più nessuno”.
Scrive El Pinta:

L’affermazione trovo sia discutibile e, se nel blogging facciamo rientrare anche chi scrive su Substack (e per me ci rientra eccome), non è vera nemmeno per un secondo.

Ma non è tanto questo che mi fa arrabbiare quanto, piuttosto, la visione della presenza digitale che quell’affermazione sottintende.

Sì, perché dire che i blog non li legge più nessuno significa pensare che il senso di averne uno sia massimizzare la visibilità che la propria presenza digitale comporta.

Perché – e qui sta il succo del discorso – c’è una bella differenza tra scrivere per le relazioni e scrivere per le visualizzazioni.
Il blog innatamente – in quanto mezzo ipertestuale – ha avuto da sempre la capacità di generare relazioni senza che per forza dovessero essere contabilizzate in followers o like di sorta. Spessissimo chi scrive un blog ne legge altri, e abitualmente ne linka i post, discutendone, anche sotto forma di critica i contenuti: è la comunicazione inter-blog che citava Reynolds, quella sottile e semi-quotidiana ragnatela di discussioni, confronti, omaggi, scambi, litigi e critiche che ancora animano le timeline dei blog che citando, linkando, connettono i contenuti e i loro autori/autrici. Attività che oggi è minoritaria, ma non morta – e questo post che sto scrivendo può essere letto come il tentativo donchisciottesco ma sincero di donargli forza.

Le relazioni che nascono su questo tipo di piattaforme sono numericamente inferiori alle cifre da capogiro degli influencer o dei personaggi pubblici: sembrano più fragili, ma hanno in più una veracità, un’autenticità che difficilmente si genera su altri tipi di piattaforme – primi fra tutti i social network – dove la spinta a generare contenuti è data principlamente dal raggiungere più visibilità possibile e influenzando in questo modo forma e sostanza dei contenuti prodotti.
Certo, anche nella blogosfera, c’è stata e resiste l’ansia da prestazione e da visualizzazioni, ma sicuramente non è indotta e incoraggiata dallo strumento stesso su cui si scrive.
Di contro, c’è anche chi da tempo si è reso conto che stare su un social non è una questione di flexare i propri followers, ma di amicizia, interessi comuni e mutuo aiuto: questo post di Paige Jarreau di quasi dieci anni fa lo sintetizzava bene nella sua frase finale:

So what have I learned by reaching 4,000 followers on Twitter? That’s it’s NOT about followers. It’s about friendships.

Poi, per finire, sul fatto che i blog non li legga più nessuno c’è anche chi dice il contrario: nel 2022 di c’erano circa 600 milioni di blog attivi e – a sentire solo quelli su wordpress – circa 70 milioni di post al mese.
Senza fissarsi con i numeri e le prestazioni perché – Flavio ce lo ricorda nel suo post citando Tom Critchlow – facendo così la presenza digitale e il senso di scrivere in rete cambiano radicalmente. Ritrovandosi a sbavare per milioni di pageviews e non accorgendosi delle più modiche e interessanti connessioni che si possono generare.

(Immagine via Retromania | synth porn in the stalker Zone)

Ora X - lascio Twitter dopo 17 anni - Foto di Ales Krivec | Via Unsplash

L’ora X

Credo che Twitter sia stato il primo social a cui mi sono iscritto: era il Gennaio 2007 e ritrovai lì le persone che ancora scrivevano alacremente post sui loro blog, ma iniziavano a ripostarne un estratto e il relativo link anche sulla timeline dell’uccellino blu, rispettando l’allora insolita regola di stare in 140 caratteri.
A ondate sempre più consistenti, una buona parte della blogosfera italiana iniziò a ritrovarsi su queste piattaforme, in particolare su FriendFeed – poi comprato nel 2009 da Facebook, affossato e chiuso sei anni dopo.

Twitter e il suo servizio di micro-blogging invece ha avuto una storia diversa, ma con un finale ugualmente triste, almeno per me.

Con il passare dei mesi, oltre che diffusore dei contenuti pubblicati su altre piattaforme (non social) sul social network creato da Jack Dorsey iniziò a svilupparsi sia una proficua attività di interazione tra i tweep – in gergo nerd le persone iscritte e Twitter si chiamavano così – sia una produzione autonoma di contenuti attraverso la possibilità di pubblicare, oltre al testo, prima foto e poi anche video.
In breve tempo, insieme al succitato Friendfeed, ai blog e a poche testate online, Twitter divenne la principale fonte di informazione, in special modo per i fatti che si stavano svolgendo in diretta, le cosiddette & maledette breaking news. Sull’onda di questo flusso di informazioni nel dicembre del 2008 approntai una trasmissione live “I greci fuochi” sulla mai troppo compianta radio catrame19: una diretta web con social media coverage delle manifestazioni di protesta che per giorni si volsero in Grecia per l’assassinio da parte della polizia del giovane Alexandros Grigoropoulos. Fu un livestreaming molto partecipato, se penso che si tratta di 15 anni fa e che si svolse nel pomeriggio, con YouTube che ancora non usava le live e Twitch che non esisteva proprio. Mi dispiace solo di aver perso la registrazione e di non averla caricata su archive.org.
Twitter e i suoi hashtag si rivelarono uno strumento nuovo e efficacissimo per filtrare e scegliere contenuti: nel luglio 2009, in una intervista/conversazione in un podcast di Antonio Sofi paragonavo un po’ picarescamente i social network alle cozze, capaci di filtrare lo sporco del mare magnum di contenuti tramite innovazioni semplici ma geniali come l’hashtag – nata su Twitter dal basso grazie a un’intuizione del blogger Chris Messina.

Il risultato più utile e umanamente soddisfacente che ho ottenuto grazie a questa funzione di aggregazione, è l’aver scoperto e essere entrato in contatto con nuovi produttori di contenuti, avendo l’opportunità di saggiarne in prima persona l’affidabilità e l’originalità.
Per dirne solo alcuni e dimenticando di sicuro altri e altre ugualmente validi, è stato così che ho conosciuto e apprezzato l’opera di giornalisti e attivisti come Kostas Kallergis, TeacherDude, Theodora Oikonomides, Spyros Gkelis (in Grecia) e Leonardo Bianchi, Marina Petrillo e Claudia Vago (in Italia). E molti altri, in Europa e fuori.
È stato così che, grazie a un’idea di Marina e Claudia, insieme a Mehdi Tekaya e Luca Alagna – vecchia conoscenza nella blosgosfera dei primi anni zero – sono nati esperimenti e progetti come Yearinhashtag e 140nn: strumenti di mediattivismo o citizen journalism o informazione dal basso – o come diavolo volete chiamarlo – che mi hanno permesso sia di apprendere e incrociare conoscenze e media – testuali, audio e video – sia di incontrare e conoscere in real life le persone conosciute sul social network.
È stato ancora così, attraverso l’attività quotidiana sulla piattaforma dei cinguettii, che la gestione e la cura dei contenuti social è diventata parte del mio ormai ultraventennale lavoro online di bit-worker.
Insomma: credo di non esagerare scrivendo che Twitter – al pari del blog – ha rappresentato, almeno per una decina di anni, uno degli ambienti online in cui mi sono trovato meglio, dove ho appreso di più e conosciuto persone in gamba.

Oggi lascio Twitter: pausa a tempo indeterminato dal social che due anni fa è stato comprato da Elon Musk che ne ha cambiato il nome e lo sta progressivamente trasformando nel suo costosissimo – 55 miliardi di dollari – megafono personale, aumentandone la tossicità fino a un punto per me diventato intollerabile.
È scattata l’ora X sia per me sia per altre fonti e comunità digitali che frequento e di cui mi fido: da NPR, tra i primi a andarsene, a Valigia Blu, da Fabio Chiusi al Guardian. Altri e altre sono sicuro che si aggiungeranno nelle prossime settimane, quando il DOGE di Trump si sentirà ancora di più il babbo di Dio e chissà quali altri attacchi da capo-troll e disi/misinformazione sputerà fuori.

Continuerò a usare con parsimonia qualche social network – Bluesky, Mastodon e un po’ meno Facebook – leggerò più libri, avrò più tempo per me, le mie amicizie e le persone che mi girano per casa – come dice un mio vecchio amico blogger.
E mi dedicherò di più e meglio a questo mio trascurato blog, provando a incrociare testi, audio e video in modi a cui penso da tempo e che non ho mai provato a sperimentare qui sopra.
Chiudi tutto, Biascicò!

(Foto di Ales Krivec | Via Unsplash)