Ora X - lascio Twitter dopo 17 anni - Foto di Ales Krivec | Via Unsplash

L’ora X

Credo che Twitter sia stato il primo social a cui mi sono iscritto: era il Gennaio 2007 e ritrovai lì le persone che ancora scrivevano alacremente post sui loro blog, ma iniziavano a ripostarne un estratto e il relativo link anche sulla timeline dell’uccellino blu, rispettando l’allora insolita regola di stare in 140 caratteri.
A ondate sempre più consistenti, una buona parte della blogosfera italiana iniziò a ritrovarsi su queste piattaforme, in particolare su FriendFeed – poi comprato nel 2009 da Facebook, affossato e chiuso sei anni dopo.

Twitter e il suo servizio di micro-blogging invece ha avuto una storia diversa, ma con un finale ugualmente triste, almeno per me.

Con il passare dei mesi, oltre che diffusore dei contenuti pubblicati su altre piattaforme (non social) sul social network creato da Jack Dorsey iniziò a svilupparsi sia una proficua attività di interazione tra i tweep – in gergo nerd le persone iscritte e Twitter si chiamavano così – sia una produzione autonoma di contenuti attraverso la possibilità di pubblicare, oltre al testo, prima foto e poi anche video.
In breve tempo, insieme al succitato Friendfeed, ai blog e a poche testate online, Twitter divenne la principale fonte di informazione, in special modo per i fatti che si stavano svolgendo in diretta, le cosiddette & maledette breaking news. Sull’onda di questo flusso di informazioni nel dicembre del 2008 approntai una trasmissione live “I greci fuochi” sulla mai troppo compianta radio catrame19: una diretta web con social media coverage delle manifestazioni di protesta che per giorni si volsero in Grecia per l’assassinio da parte della polizia del giovane Alexandros Grigoropoulos. Fu un livestreaming molto partecipato, se penso che si tratta di 15 anni fa e che si svolse nel pomeriggio, con YouTube che ancora non usava le live e Twitch che non esisteva proprio. Mi dispiace solo di aver perso la registrazione e di non averla caricata su archive.org.
Twitter e i suoi hashtag si rivelarono uno strumento nuovo e efficacissimo per filtrare e scegliere contenuti: nel luglio 2009, in una intervista/conversazione in un podcast di Antonio Sofi paragonavo un po’ picarescamente i social network alle cozze, capaci di filtrare lo sporco del mare magnum di contenuti tramite innovazioni semplici ma geniali come l’hashtag – nata su Twitter dal basso grazie a un’intuizione del blogger Chris Messina.

Il risultato più utile e umanamente soddisfacente che ho ottenuto grazie a questa funzione di aggregazione, è l’aver scoperto e essere entrato in contatto con nuovi produttori di contenuti, avendo l’opportunità di saggiarne in prima persona l’affidabilità e l’originalità.
Per dirne solo alcuni e dimenticando di sicuro altri e altre ugualmente validi, è stato così che ho conosciuto e apprezzato l’opera di giornalisti e attivisti come Kostas Kallergis, TeacherDude, Theodora Oikonomides, Spyros Gkelis (in Grecia) e Leonardo Bianchi, Marina Petrillo e Claudia Vago (in Italia). E molti altri, in Europa e fuori.
È stato così che, grazie a un’idea di Marina e Claudia, insieme a Mehdi Tekaya e Luca Alagna – vecchia conoscenza nella blosgosfera dei primi anni zero – sono nati esperimenti e progetti come Yearinhashtag e 140nn: strumenti di mediattivismo o citizen journalism o informazione dal basso – o come diavolo volete chiamarlo – che mi hanno permesso sia di apprendere e incrociare conoscenze e media – testuali, audio e video – sia di incontrare e conoscere in real life le persone conosciute sul social network.
È stato ancora così, attraverso l’attività quotidiana sulla piattaforma dei cinguettii, che la gestione e la cura dei contenuti social è diventata parte del mio ormai ultraventennale lavoro online di bit-worker.
Insomma: credo di non esagerare scrivendo che Twitter – al pari del blog – ha rappresentato, almeno per una decina di anni, uno degli ambienti online in cui mi sono trovato meglio, dove ho appreso di più e conosciuto persone in gamba.

Oggi lascio Twitter: pausa a tempo indeterminato dal social che due anni fa è stato comprato da Elon Musk che ne ha cambiato il nome e lo sta progressivamente trasformando nel suo costosissimo – 55 miliardi di dollari – megafono personale, aumentandone la tossicità fino a un punto per me diventato intollerabile.
È scattata l’ora X sia per me sia per altre fonti e comunità digitali che frequento e di cui mi fido: da NPR, tra i primi a andarsene, a Valigia Blu, da Fabio Chiusi al Guardian. Altri e altre sono sicuro che si aggiungeranno nelle prossime settimane, quando il DOGE di Trump si sentirà ancora di più il babbo di Dio e chissà quali altri attacchi da capo-troll e disi/misinformazione sputerà fuori.

Continuerò a usare con parsimonia qualche social network – Bluesky, Mastodon e un po’ meno Facebook – leggerò più libri, avrò più tempo per me, le mie amicizie e le persone che mi girano per casa – come dice un mio vecchio amico blogger.
E mi dedicherò di più e meglio a questo mio trascurato blog, provando a incrociare testi, audio e video in modi a cui penso da tempo e che non ho mai provato a sperimentare qui sopra.
Chiudi tutto, Biascicò!

(Foto di Ales Krivec | Via Unsplash)

I giardini digitali

Digital gardens | Maggie Appleton

Mi verrebbe da chiamarli orti ipertestuali, ma facendo così complicherei ancora di più la metafora vegetale con cui vengono indicati.

Facciamo un passo indietro: nel primo episodio di “C’era una volta la blogosfera”, Flavio Pintarelli ci ha ricordato i giardini digitali:

[i] cosiddetti “digital garden”, cioè dei siti che sono a metà fra dei blog e dei progetti dove, invece, l’intervento del programmatore, di chi scrive il codice, è un po’ più importante e che di fatto cercano di curare dei contenuti così come si coltivano dei giardini; quindi si creano dei microcosmi tematici.

Flavio Pintarelli | “C’era una volta la blogosfera” | Epiodio 1

Seguendo e approfondendo i link contenuti nell’ottimo articolo di Riccardo Coluccini dedicato a questi spazi virtuali, ho letto e apprezzato questa “A Brief History & Ethos of the Digital Garden” di Maggie Appleton che vale la pena leggere per capire la storia e l’evoluzione del termine e delle sue applicazioni nel Web.

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C’era una volta la blogosfera | episodio 1

C'era una volta la blogosfera | podcast | episodio 1

“C’era una volta – e c’è ancora – la blogosfera” è un podcast che parla di blog, nell’Ottobre del 2020, sotto i cieli pesanti che tutti conosciamo.
Dagli anni zero a oggi, una serie di interviste a blogger e su argomenti che hanno animato e continuano a animare quella parte di Internet chiamata da una ventina d’anni blogosfera, un territorio digitale che dal centro del Web – se mai ne esistesse uno – è diventato più periferico, suburbano, periurbano, o come diavolo si dirà oggi.
Quello che questo podcast non vorrebbe essere è un’operazione nostalgia, cedendo alla tentazione di riavvolgere il nastro un po’. Perché non esiste nessun nastro e tanto meno nessuna età dell’oro da recuperare. Ci sono invece le persone – che leggevo, leggo e forse leggerò – da ascoltare in viva voce. Con “Sudden Retropia” in sottofondo, ma solo musicale.


La scintilla per partire è arrivata da un thread di tweet che ha innescato un’intervista a Flavio El Pinta Pintarelli durante la quale si è parlato di digital gardens e curatela dei contenuti, di Mark Fisher e infrastruttura punk, di possibili ritorni alla blogosfera e di un Godard proto youtuber. Il tutto preceduto e concluso dall’apparizione di Davide Carbonai e dal supporto di un sedicente Comitato che mi ha rassicurato che noi ti si dice perché ti si vuole bene.

La trascrizione integrale, la linkografia e i credits di questa primo episodio li trovate qui sotto al lettore audio, insieme a altri luoghi dove ascoltare e seguire il podcast oltre che su questo blog.

Dura una ventina di minuti: buon ascolto.

C’era una volta la blogosfera | Episodio 1: “Noi ti si dice perché ti si vuole bene”

Credits

Distribuzione e licenza

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