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Connessioni, numeri e grattarsi

“Non smetterò mai di scrivere sul blog: è come un prurito che devo grattare – e non mi importa se è un formato superato.”

Sono parole di Simon Reynolds che, quasi un anno fa sul Guardian, scriveva come il blog rimanga per lui il formato perfetto: nessuna restrizione in termini di lunghezza o brevità – sia che si tratti di un meticoloso post di 3000 parole scelte con cura, sia che si tratti di un brogliaccio di meditazioni o fantasticherie. Nessuna norma sul tono e sulla consistenza del tono da usare. Nessuna schiavitù da orari e scadenze.
E, specialmente, la possibilità di divagare, scegliendo e approfondendo temi che non sono di stretta d’attualità, anche sconfinando in campi e argomenti poco conosciuti. (“I can meander, take short cuts and trespass in fields where I don’t belong.”)

Quella che invece è sparita – continuava Reynolds commentando e ampliando l’articolo anche sul suo Blissblog – è la comunicazione tra blog (“But what’s changed – what’s gone – is inter-blog communication”). Sono sparite le relazioni tra blog, insomma. Di conseguenza, le relazioni tra blogger.

L’articolo di Reynolds mi è tornato in mente quando stamattina ho letto il post di Flavio Pintarelli intitolato provocatoriamente “I blog non li legge più nessuno”.
Scrive El Pinta:

L’affermazione trovo sia discutibile e, se nel blogging facciamo rientrare anche chi scrive su Substack (e per me ci rientra eccome), non è vera nemmeno per un secondo.

Ma non è tanto questo che mi fa arrabbiare quanto, piuttosto, la visione della presenza digitale che quell’affermazione sottintende.

Sì, perché dire che i blog non li legge più nessuno significa pensare che il senso di averne uno sia massimizzare la visibilità che la propria presenza digitale comporta.

Perché – e qui sta il succo del discorso – c’è una bella differenza tra scrivere per le relazioni e scrivere per le visualizzazioni.
Il blog innatamente – in quanto mezzo ipertestuale – ha avuto da sempre la capacità di generare relazioni senza che per forza dovessero essere contabilizzate in followers o like di sorta. Spessissimo chi scrive un blog ne legge altri, e abitualmente ne linka i post, discutendone, anche sotto forma di critica i contenuti: è la comunicazione inter-blog che citava Reynolds, quella sottile e semi-quotidiana ragnatela di discussioni, confronti, omaggi, scambi, litigi e critiche che ancora animano le timeline dei blog che citando, linkando, connettono i contenuti e i loro autori/autrici. Attività che oggi è minoritaria, ma non morta – e questo post che sto scrivendo può essere letto come il tentativo donchisciottesco ma sincero di donargli forza.

Le relazioni che nascono su questo tipo di piattaforme sono numericamente inferiori alle cifre da capogiro degli influencer o dei personaggi pubblici: sembrano più fragili, ma hanno in più una veracità, un’autenticità che difficilmente si genera su altri tipi di piattaforme – primi fra tutti i social network – dove la spinta a generare contenuti è data principlamente dal raggiungere più visibilità possibile e influenzando in questo modo forma e sostanza dei contenuti prodotti.
Certo, anche nella blogosfera, c’è stata e resiste l’ansia da prestazione e da visualizzazioni, ma sicuramente non è indotta e incoraggiata dallo strumento stesso su cui si scrive.
Di contro, c’è anche chi da tempo si è reso conto che stare su un social non è una questione di flexare i propri followers, ma di amicizia, interessi comuni e mutuo aiuto: questo post di Paige Jarreau di quasi dieci anni fa lo sintetizzava bene nella sua frase finale:

So what have I learned by reaching 4,000 followers on Twitter? That’s it’s NOT about followers. It’s about friendships.

Poi, per finire, sul fatto che i blog non li legga più nessuno c’è anche chi dice il contrario: nel 2022 di c’erano circa 600 milioni di blog attivi e – a sentire solo quelli su wordpress – circa 70 milioni di post al mese.
Senza fissarsi con i numeri e le prestazioni perché – Flavio ce lo ricorda nel suo post citando Tom Critchlow – facendo così la presenza digitale e il senso di scrivere in rete cambiano radicalmente. Ritrovandosi a sbavare per milioni di pageviews e non accorgendosi delle più modiche e interessanti connessioni che si possono generare.

(Immagine via Retromania | synth porn in the stalker Zone)

I giardini digitali

Digital gardens | Maggie Appleton

Mi verrebbe da chiamarli orti ipertestuali, ma facendo così complicherei ancora di più la metafora vegetale con cui vengono indicati.

Facciamo un passo indietro: nel primo episodio di “C’era una volta la blogosfera”, Flavio Pintarelli ci ha ricordato i giardini digitali:

[i] cosiddetti “digital garden”, cioè dei siti che sono a metà fra dei blog e dei progetti dove, invece, l’intervento del programmatore, di chi scrive il codice, è un po’ più importante e che di fatto cercano di curare dei contenuti così come si coltivano dei giardini; quindi si creano dei microcosmi tematici.

Flavio Pintarelli | “C’era una volta la blogosfera” | Epiodio 1

Seguendo e approfondendo i link contenuti nell’ottimo articolo di Riccardo Coluccini dedicato a questi spazi virtuali, ho letto e apprezzato questa “A Brief History & Ethos of the Digital Garden” di Maggie Appleton che vale la pena leggere per capire la storia e l’evoluzione del termine e delle sue applicazioni nel Web.

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C’era una volta la blogosfera | episodio 1

C'era una volta la blogosfera | podcast | episodio 1

“C’era una volta – e c’è ancora – la blogosfera” è un podcast che parla di blog, nell’Ottobre del 2020, sotto i cieli pesanti che tutti conosciamo.
Dagli anni zero a oggi, una serie di interviste a blogger e su argomenti che hanno animato e continuano a animare quella parte di Internet chiamata da una ventina d’anni blogosfera, un territorio digitale che dal centro del Web – se mai ne esistesse uno – è diventato più periferico, suburbano, periurbano, o come diavolo si dirà oggi.
Quello che questo podcast non vorrebbe essere è un’operazione nostalgia, cedendo alla tentazione di riavvolgere il nastro un po’. Perché non esiste nessun nastro e tanto meno nessuna età dell’oro da recuperare. Ci sono invece le persone – che leggevo, leggo e forse leggerò – da ascoltare in viva voce. Con “Sudden Retropia” in sottofondo, ma solo musicale.


La scintilla per partire è arrivata da un thread di tweet che ha innescato un’intervista a Flavio El Pinta Pintarelli durante la quale si è parlato di digital gardens e curatela dei contenuti, di Mark Fisher e infrastruttura punk, di possibili ritorni alla blogosfera e di un Godard proto youtuber. Il tutto preceduto e concluso dall’apparizione di Davide Carbonai e dal supporto di un sedicente Comitato che mi ha rassicurato che noi ti si dice perché ti si vuole bene.

La trascrizione integrale, la linkografia e i credits di questa primo episodio li trovate qui sotto al lettore audio, insieme a altri luoghi dove ascoltare e seguire il podcast oltre che su questo blog.

Dura una ventina di minuti: buon ascolto.

C’era una volta la blogosfera | Episodio 1: “Noi ti si dice perché ti si vuole bene”

Credits

Distribuzione e licenza

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