Ho scritto questo breve racconto quasi cinque anni fa, lasciandolo poi confinato in una cartella chiamata “Pericolo paradossi” dove si trovano altri tre pezzi tra il surreale e l’assurdo. In questi giorni mi è capitato di parlarne a arsenio bravuomo e così mi sono deciso a pubblicarlo sul blog per non perderne il ricordo.
È dedicato a Rachele e Franco, per tutte le volte che mi hanno salvato gli occhi e la mente dal niente.
La situazione era diventata insostenibile. Si era arrivati al punto che tre incidenti stradali su quattro erano dovuti a quel tipo di distrazione. Eppure le persone continuavano in quell’attività in tutte le situazioni, sia fossero ferme a un semaforo, sia stessero sorpassando. Chi guidava non riusciva a staccare gli occhi anche se in strada c’erano bambini, processioni, posti di blocco o ambulanze con le sirene accese.
Si era arrivati al punto di convocare un consiglio dei ministri straordinario per arginare quella che continuavano a chiamare emergenza. Non passava giorno senza che qualcuno morisse. Due, tre, quattro al giorno. Il dato era quasi costante, le variazioni erano minime, il numero totale in un anno oltrepassava sempre le migliaia. Senza contare il numero delle persone ferite. Quello aumentava sempre.
Il ministro della Salute, alla vigilia di quel consiglio dei ministri, aveva dichiarato che non era possibile per un paese civile che una quota importante della spesa sanitaria servisse a tamponare una calamità autoimposta. Il ministro dell’Interno, poco prima di entrare a Palazzo Chigi, aveva tuonato contro la permissività delle leggi elogiando nello stesso tempo polizia, carabinieri e vigili urbani “da soli in strada dalla mattina alla sera, con mezzi e stipendi non degni di quella professione.”
Il consiglio dei ministri era durato più di un’ora, un record per riunioni che di solito ne duravano meno della metà. Stavolta non era stato un incontro formale, come di solito accadeva. C’era da essere sicuri che nessuno tra i partiti che appoggiavano il governo potesse avere tentennamenti o posizioni defilate rispetto alla decisione finale, già presa in altre stanze. Ossia che la principale responsabilità, la colpa, sottolinearono più volte i politici cattolici, era interamente del ministro della Cultura. L’emerito incapace – come lo definivano ogni giorno l’opposizione e anche una discreta manciata di deputati della maggioranza – che il Presidente del consiglio aveva accettato a malincuore nell’esecutivo anche se alle elezioni non aveva conquistato il suo seggio, seppur candidato in un collegio di quelli sicuri dove sarebbe passato anche il coniglio di Masha e Orso. Così aveva dichiarato una sera in un talk show un opinionista noto per il suo mischiare argomenti alti e popolari con facile disinvoltura.
Aveva iniziato l’attacco il ministro dei Trasporti, sostenendo che l’iniziativa era stata concepita per mettere in difficoltà il suo ministero e la sua parte politica. Aveva anche insinuato il dubbio che quello del ministro della Cultura fosse il primo passo per il boicottaggio del sistema commerciale e dello sviluppo economico della nazione. Dopo di lui, il ministro dello Sviluppo economico aveva ripreso l’accusa e aveva snocciolato per un paio di minuti buoni una serie di dati e cifre a dimostrazione del fatto che gli effetti della campagna ministeriale erano ben visibili e misurabili in tutta la loro drammaticità: il PIL non aumentava, il deficit cresceva, gli investitori esteri diminuivano, l’economia ristagnava avviandosi verso la recessione.
Il Presidente del consiglio, dopo i primi interventi, cercò di mettere sul tavolo proposte concrete e da attuare il prima possibile. Si poteva subito aumentare l’IVA di un bel po’ sul prodotto in vendita, anche portandola oltre il 50%, per scoraggiarne l’acquisto da parte delle classi meno abbienti. Poi si sarebbe potuto imbastire una campagna di sensibilizzazione usando immagini scioccanti e testimonianze dirette dei parenti delle vittime e di chi era rimasto seriamente leso da incidenti di quel tipo. Il ministro dell’Interno aveva subito specificato che le forze dell’ordine erano allo stremo. Prima di tutto ci volevano più operatori di pubblica sicurezza, insieme a sanzioni e pene molto più pesanti. Ritiro della patente permanente, multe salatissime, anche il carcere, senza possibilità di sconti di pena. Il ministro della Giustizia aveva immediatamente avallato la proposta, quello della Difesa aveva aggiunto che si poteva usare l’esercito per presidiare le strade più trafficate.
Il ministro dello Sport ricordò che la partecipazione a eventi e manifestazioni sportive e ricreative era calato di più del 70% e quello dell’Informazione si lamentò che lo share delle trasmissioni televisive navigava ormai su dati che non permettavano di vendere pubblicità a prezzi adeguati e che nonostante il canone fosse già stato abbassato due volte, non si era ottenuto nessun risultato significativo.
Il ministro della Cultura non disse una parola, tormentandosi per tutto il tempo i baffi con l’indice e il pollice, come a volerli stirare per coprire il labbro superiore. Quando furono chieste le sue dimissioni fece solo un cenno d’assenso, distogliendo per qualche secondo la mano da sotto al naso e abbassando ulteriormente lo sguardo.
Ne uscirono di notte, con i giornalisti che li aspettavano infreddoliti sotto il portone. Parlò solo il Presidente del consiglio e disse che il governo, all’unanimità, aveva deciso di sospendere immediatamente la ben nota campagna promossa dal Ministero della Cultura a causa delle “prolungate e persistenti conseguenze che hanno avuto e continuano a avere sulla popolazione”.
Aggiunse che aveva accettato le dimissioni del Ministro della Cultura e che “il presidente del consiglio” – parlò di sé in terza persona – aveva già firmato un decreto legge e che pertanto, già dall’indomani mattina, chiunque fosse stato trovato in condizioni tali da mettere in pericolo la cittadinanza, sarebbe stato passibile di sanzioni pecuniarie “molto pesanti” e, nel caso, le forze dell’ordine avrebbero avuto la possibilità di fermare e trattenere i trasgressori al fine di far cessare immediatamente il pericolo costituito per l’intera comunità.
Qualche giornalista provò a porre delle domande, ma il presidente, ben scortato, per tutta risposta si infilò veloce in un’auto che partì nel nero-arancione della notte.
Un giornalista, uno tra i più vecchi, scrisse per primo sul suo profilo social: “E adesso la smetteranno con questo maledetto odore della carta sempre in offerta in televisione, al supermercato e nei negozi online.” Il suo post fu condiviso da migliaia di persone nel giro di pochi minuti. Una buona parte era la stessa che fino al giorno prima non avrebbe staccato gli occhi dalla pagine nemmeno in caso di incendio della casa. Meme contro i lettori, gli scrittori e gli editori si moltiplicarono e variarono con più forza di un virus.
Già a partire dalla mattina seguente l’annuncio del presidente del consiglio, furono fatti a pezzi, imbrattati e bruciati i numerosi cartelloni pubblicitari che avevano sparso per tutta la nazione il messaggio “La bellezza sta negli occhi di chi legge”. Furono ritirati gli spot, sospesa la pubblicazione di immagini e video dalla televisione e dalla Rete – dove la frase fu straziata e ridicolizzata in mille modi irriverenti.
Nel giro di un paio di settimane, non senza sorpresa anche da parte della stampa estera, in tutto il paese nessuno leggeva più un libro e il governo andò avanti, sostenuto da una maggioranza, sia in Parlamento sia nelle strade, che non aveva mai avuto.
L’ex ministro della Cultura, intervistato da una televisione svizzera, dopo aver espresso il suo cordoglio per le vittime della sua campagna di lettura, tentò di scaricare la responsabilità quasi interamente sui dirigenti del ministero con cui si era trovato a collaborare, senza poterne avere di propri da insediare. Nell’ultima risposta citò la famosa frase di Balzac “una notte d amore è un libro letto in meno” invitando la popolazione europea a fare più figli “che sono il vero futuro dell’umanità, anche a costo di avere genitori analfabeti.”
(L’immagine originale, che ho riadattato al racconto, è di Kate Trysh | via Unsplash)