Pieter Brueghel il Giovane - Danza intorno albero della cuccagna

E tutti danzarono

È un libro che parla di rapporti tra generazioni quello di Alessandro Bertante: quella più giovane, nata nel nuovo millennio, e quella dei loro genitori, che potremmo definire novecentesca. Alla seconda appartiene Ivan Boscolo, professore alla Statale di novantacinque chili e sulla strada dell’ipocondria, separato dalla moglie Francesca, di cui è ancora innamorato e che ha conosciuto ai tempi dell’occupazione della Pantera. Ivan e Francesca si ritrovano insieme a passare una notte apocalittica alla ricerca di Micol, la loro figlia persa nel Parco Sempione, quei trentotto e passa ettari di verde nel cuore di Milano dove avvengono gli eventi finali di “E tutti danzarono”.
Micol fa parte di una folla di più di trecentomila giovani che si sono ritrovati nella città meneghina per partecipare a un rave diffuso in tutti i parchi cittadini, permesso e organizzato dall’amministrazione comunale, che però è sfuggito completamente al controllo perché i partecipanti hanno inziato a ballare e non hanno più smesso.
Questi spettri argentei – che sono i nostri figli – danzano anche se la musica non c’è, anche se i poliziotti e le guardie li sfondano di botte e li colpiscono con i cannoni ad acqua: danzano fino allo sfinimento, fino a morire, proprio come accadde in un’estate torrida del 1518 a Strasburgo, quando una donna di nome Troffea iniziò a muoversi in una sorta di danza macabra attirando a sé centinaia di altre persone che per due mesi, da luglio a settembre, occuparono le strade della città francesce in quella che viene oggi ricordata da storici e antropologi come la inspiegabile piaga del ballo del 1518.

È un libro che parla anche di afa, di caldo, di un’estate infiammante, di pomeriggi canicolari e notti soffocanti come quelle che siamo abituati a sopportare da diversi anni a questa parte. Ancor di più tra il cemento dei centri metropolitani.
“E tutti danzarono” parla molto di Milano e la fa in maniera toponomasticamente dettagliata, con il protagonista Boscolo che gira per le vie del centro della città, specificando i nomi delle vie, delle piazze e dei quartieri, come se Bertante volesse controbilanciare il realismo distopico delle azioni che si svolgono con la concretissima ubicazione di queste nel tessuto urbano della città.

È un gran bel libro quello di Bertante e, fosse solo il vezzo di un lettore che lo segue da un po’, mi è piaciuto il fatto che alcuni personaggi siano in continuità con quelli dei suoi romanzi precedenti. A partire da Ivan Boscolo, figlio del brigatista rosso Alberto che era il protagonista di “Mordi e fuggi” per proseguire con Alessio Slaviero, qui collega universitario di Boscolo e già figura principale di “La magnifica orda” – romanzo breve in tre movimenti, uno dei quali si svolge ancora a Parco Sempione.

Voglio chiudere con due citazioni dalle pagine del libro che mi sono rimaste impresse perché riguardanti quella generazione X a cui anch’io appartengo – Bertante ha solo un anno più di me – e che sa di avere responsabilità politiche e esistenziali verso la gioventù contemporanea. Verso quei figli che potrebbero benissimo cadere sotto i colpi di un’isteria collettiva che potrebbe portarli a danzare a vuoto fino alla morte, perchè – a differenza dei maranza e dei black bloc – non hanno altro da fare se non soccombere alla stronzate che non siamo stati in grado di risparmiargli.

Dove erano finiti tutti i miei compagni di strada? Quale passo falso o coincidenza del destino ci ha fatto allontanare, quale scelta sciagurata o anche solo inevitabile?
Insicuri e narcisisti, codardi, soprattutto codardi, ogni volta che abbiamo avuto l’occasione di dimostrarlo, siamo rimasti soli a danzare sulla nave in tempesta, ciechi e privi di di ogni direzione, aspettando che ogni cosa intorno a noi deperisse o, ancora peggio diventasse farsa.
[…]
Quella libertà e quel desiderio dove sono andati a finire?
Chi ci ha privati della possibilità di scegliere?
Siamo stati noi e lo abbiamo fatto in modo spontaneo, lentamente seguendo una progressione senza strappi, passo dopo passo, dimenticando di sollevare un dubbio, sconfitta dopo sconfitta, compromesso dopo compromesso, accogliendo ogni novità, scientifica o sociale che fosse, sopraffatti dall’entusiasmo degli imbecilli che, come i bambini, si meravigliano del mondo e non sentono la necessità di cambiarlo ma anzi vogliono farne parte per non sentirsi esclusi.

Se vi ha incuriosito la storia della piaga del ballo del 1518, qui trovate un ottimo articolo di approfondimento di Ned Pennant-Rea – e su YouTube un mini-documentario, oltre – figurati se qualcuno non l’aveva già fatto – un video creato con l’intelligenza artificiale.
E, infine, la prossima volta che leggerete da qualche parte che maranza è la crasi di zanza e marocchino, sappiate che questo termine – nonostante anche il Corriere della Sera abbia scritto così – esiste fin dagli anni Ottanta e non c’incastra una sega con l’immigrazione clandestina: deriva da zanza, il ladruncolo o il truffatore nello slang milanese, ma con un atteggiamento più cattivo e pericoloso.
Buona lettura, e trattate con rispetto le giovani generazioni.

(Immagine “Danza intorno all’albero della cuccagna” di Pieter Brueghel il Giovane | via Wikipedia)

Fuga dai nazi, dai bulli e dalla tempesta | Veni, vidi, scripsi 02

Fuga dai nazi, dai bulli e dalla tempesta

Secondo post di Veni, vidi, scripsi: altri tre video che mi è sembrato interessante segnalare tra quelli visti in questi ultimi tempi, sempre in tema di letteratura, cinema e musica.
I link ai video sono quelli con lo sfondo nero.

Stavolta si parte dal cinema. E più precisamente da “Cerdita”, il cortometraggio – vincitore del premio Goya 2019 come miglior corto di fiction – che, abilmente espanso, ha poi generato il primo lungometraggio della regista spagnola Carlota Pereda, distribuito a livello internazionale con il titolo di “Piggy”.
Nei suoi quattordici minuti di durata non si può che fare il tifo per Sara – una formidabile Laura Galán capace di interpretare la final girl senza mai proferire una parola – pesantemente bullizzata da ragazzi e ragazze suoi coetanei per via del suo corpo in sovrappeso. Nell’assolata campagna dell’Estremadura dove Sara corre per sfuggire agli sguardi e ai dileggi accade però di incontrare anche un salvatore inatteso quanto spietato che indirizza l’opera nella direzione horror/gore che si compirà al meglio nel film d’esordio di quattro anni dopo. Anche se un indizio orrorifico ci viene regalato fin dal primo minuto del corto quando Sara ascolta in cuffia “The night of the living dead” della band “Agoraphobia”, garage rock da Santiago di Compostela.
Un brevissimo estratto delle grezze parole rivolte dalle ragazze a Sara:

Dove vai, porcellina?
Il tuo tipo scappa.
Per una volta che avevi rimorchiato!
State bene insieme.
Oink, oink, chiamalo!

Il video sulla letteratura riguarda un mostro sacro – almeno per me – del Novecento: Walter Benjamin. Della vita e delle opere del filosofo, traduttore e critico letterario, oltre che scrittore, il canale YouTube “Fiction Beast” ne pubblica un ritratto partendo dal 1940 e dalla sua fuga: prima dalla Germania nazista e poi dalla Francia occupata, attraversando i Pirenei e la Spagna già sotto le grinfie del regime franchista, nel tentativo di raggiungere gli Stati Uniti. La fine è purtroppo nota: fermato alla frontiera dalla polizia, si toglierà la vita con un’overdose di morfina. Gli altri suoi compagni di viaggio, ebrei come Benjamin – indesiderati d’Europa come gli internazionalisti che dalla Spagna alcuni anni prima scappavano dopo la fine della guerra civile – riusciranno a ottenere il permesso di partire il giorno dopo.
Il titolo del video può apparire cattivo e sminuente – This genius failed in everything – ma la capacità di sintesi e le informazioni di fondo sono più che soddisfacenti per un video che in ventidue minuti riesce a fornire una ritratto sincero del pensiero di Benjamin, senza semplificazioni o sbavature. Il tono è interessante perché alterna, con il giusto equilibrio, citazioni delle opere e intermezzi ironici. Come il modo in cui viene descritta la seconda volta in cui il geniale intellettuale berlinese ritorna a casa dei genitori dopo non essere riuscito a ottenere l’abilitazione all’insegnamento all’università di Francoforte – il nostro era già sposato, aveva un figlio e anche una relazione con una rivoluzionaria lettone conosciuta a Capri:

Benjamin era troppo anticonformista nei suoi pensieri. Così, per la seconda volta, fece ritorno al suo seminterrato per giocare ai videogiochi, mangiare salsicce e bere birra. Ma suo padre era abbastanza stufo di lui e gli tolse la paghetta. Sei un uomo adulto ora!

Per passare all’ultimo video dedicato musica, occorre però scomodare ancora un po’ Walter Benjamin e la sua celebre descrizione – ispirata da un acquerello di Klee – dell’angelo della storia:

L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

La tempesta – stavolta di neve – ritorna in Ariel, singolo uscito pochi giorni fa per “Night Life”, l’ultimo lavoro dei The Horrors. Bloccato per un guasto all’automobile in un paesaggio innevato – sembra di stare tra le prime inquadrature aeree di Shining e l’inquietudine alla Twin Peaks – Faris Badwan, il cantante del gruppo britannico, si trova a correre in mezzo ai boschi mentre la figura di uno spirito dell’aria – impersonata dall’artista e performer Castor Taylor-Wade – appare tra la neve che continua a cadere. Tra Shakespeare, drum machine e sintetizzatori, senza rinunciare alle originarie radici gotiche.
Questo l’incipit del testo tradotto:

In questo mondo di silenti paesaggi invernali
tutti i sogni giacciono sospesi e invisibili nell’aria
e ogni vacua croce che ci portiamo dietro per tutta la vita
si trascina sotto il sole gravando sulle nostre spalle.

Ma quando questa sensazione appare in una luce color del rame
metti il tuo spirito accanto a me
questa paura che tutti quelli che amiamo ci diranno addio
si dissolve naturalmente nella notte senza forma.

Tre fughe diverse, mentre altre fughe concretissime e attuali si aggiungono in questi giorni di incipiente primavera. Come i professori universitari di filosofia e di storia che lasciano gli Stati Uniti per il Canada, dopo aver studiato come funzionano il fascismo e la propaganda e averne constatato gli effetti direttamente sulla società.

Veni, vidi, scripsi | 01 | Luciano Funetta, Clémentine Meyer, Viagra Boys

Non scrittura, mondo movie e corpi della palude

Per la categoria “Veni, vidi, scripsi” – nuova, improbabile rubrica di questo blog – ecco tre video scelti tra quelli che più mi sono piaciuti in queste ultime settimane di visioni sul Web. Gli argomenti sono i soliti tre che mi appassionano da sempre: letteratura, cinema e musica.
I link ai video sono quelli con lo sfondo nero

Partiamo dalla letteratura.
Emanuela Cocco ha creato una rassegna che si chiama “Contemporanei”: sul suo canale “Scrivere di notte” invita autori contemporanei a raccontarci come hanno scritto il loro libro. Luciano Funetta – uno tra gli scrittori più interessanti dei nostri giorni – accetta l’invito e ne approfitta per parlarci della non scrittura in 15 minuti di appuntite riflessioni su conflitto, ostilità e silenzio. Lo fa attraverso le sue parole e citazioni da Elias Canetti, Susan Sontag, Franco Cordelli e Gérard de Nerval.
Ne trascrivo un breve estratto:

La durata è qualcosa di sovratemporale. Cioè che ha delle coordinate temporali, ma non solo. Per cui una scrittura che possiede una durata è una scrittura in grado di muoversi in più direzioni contemporaneamente. Il che la rende difficile a scriversi. E quasi impossibile da inseguire.
Questi momenti di non scrittura, questi momenti in cui la scrittura si interrompe, si prende una pausa da se stessa e quindi dalla sua stessa esistenza, dal flusso delle cose, sono solitamente dei momenti molto privati che chi scrive tende a non voler condividere e hanno a che fare con il segreto, sono una zona ostile. La non scrittura è una zona ostile della scrittura. E sono anche spaventosi sicuramente. Ma è proprio in questi momenti che la scrittura ingaggia le sue battaglie più decisive.

Passando al cinema, ci spostiamo sul canale “Cinéma et politique”, uno tra i migliori sulla settima arte di tutta YouTube: la sua talentuosa creatrice, Clémentine Meyer, ha appena pubblicato “Le MONDO : le monde à travers une lentille réactionnaire”, un’analisi dettagliata e coinvolgente del filone dei mondo movie.
Venti minuti che indagano, grazie a un originale sguardo critico e a una preziosa dote di fonti – le trovate nella descrizione del video – quella serie di documentari shock che uscirono in Italia a partire dagli anni ’60 e che, attraverso un ejzenstejnano montaggio delle attrazioni – mescolando assurdo, violenza grottesca e una massiccia dose di rappresentazione reazionaria, maschilista e razzista della realtà – influirono sull’immaginario collettivo del pubblico italiano in pieno boom economico.
Traduco e trascrivo un estratto:

Attraverso questa estetica simile al collage, quello che “Mondo cane” ci offre è una visione frammentata del mondo, ma da questi frammenti Gualtiero Iacopetti non ricava una narrazione coerente. L’unico fil rouge che riesce a trovare per connettere tra loro le mmagini è quello di un’umanità bizzarra che solo l’ironia sembra riuscire a cogliere. È per questo che nel film l’umanità tende a deformarsi sotto le sembianze del grottesco, fino ad assumere i tratti di una galleria di nuovi mostri, al limite dell’allucinatorio.
Nel secondo dopoguerra il grottesco fu uno dei linguaggi espressivi preferiti dal cinema italiano perché era quello più capace di esprimere il sentimento di rottura provocato da un’Italia e da un mondo in cambiamento, sotto l’effetto del processo di modernizzazione.

Concludendo in musica, si approda sul canale dei Viagra Boys, dove è appena uscito “The Bog Body”, terzo singolo del gruppo svedese, estratto dal disco in uscita il 25 di aprile. Sestetto da sempre avverso, a partire dal nome, a machismi e conformismi, conferma la sua folle indole in questo video diretto da Eoin Glaister dove un cadavere femminile, uscito mummificato da una palude – una mummia di palude, appunto – ricopre la parte di principale protagonista.
La ritroviamo in un pub e nella sala di registrazione del gruppo a ballare e a suonare sui riff post-punk e a baciarsi e a fare foto di scena con Sebastian Murphy, voce e fondatore dei ragazzi della pillola blu. La presa in giro delle apparenze e dell’ossessione dei corpi è totale, così come della gelosia e del fascino a tutti i costi.
Traduco l’incipit del testo della canzone:

Da non crederci.
Hanno trovato un corpo sepolto sotto il ghiaccio.
È in perfette condizioni.
I suoi capelli e le sue unghie sembrano davvero belli.
Come mai sei arrabbiato, credi che sia una minaccia per te?
Non posso farci niente se sono impressionato dal fatto che non abbia nulla a che fare con te.
Sei consumato dalla gelosia,
Sei completamente ossessionato dal
corpo della palude.

Tre video per un totale di nemmeno quaranta minuti: guardateli, quando potete, e se ci trovate delle assonanze e dei collegamenti, ne sono ancora più contento.

Miner working with Consolidated Coal Company, Kentucky

Tirarsi su dai propri stivali e il mito di farcela da soli

“There is nobody in this country who got rich on his own. Nobody.”
Elizabeth Warren

“Lo slogan che ci ripetiamo tra noi Wu Ming è che bisogna cercare di salvarsi il culo il più collettivamente possibile.”
Wu Ming 2

Mi sembra che oggi il termine self-made man, più che insistere sull’autostima e la fiducia nella propria capacità di forgiare da solo il proprio destino, venga usato principalmente per definire qualcuno che non ha bisogno di regole e norme condivise, che non necessita del supporto della comunità o delle opportunità date dal contratto sociale – che anzi vede come ostacoli alla piena realizzazione della sua missione, quasi superomistica.
Il suo significato originale, nato per indicare la poliedrica e geniale figura di Benjamin Franklin, è progressivamente slittato verso coloriture più individualiste e egoiste, acquisendo un’accezione da uno contro tutti o da uomo solo al comando distante dall’umanesimo illuminista e allo spirito di servizio che guidavano il pensiero e le azioni dell’uomo giustamente considerato uno dei padri fondatori degli Stati Uniti.
Il self-made man odierno sembra ormai rappresentato da colui che conta solo sulla sua capacità imprenditoriale, il suo talento e la sua abnegazione e non ha bisogno d’altro, se non di completa libertà d’azione. Indivisualista convinto e acerrimo acerrimo di lacci e lacciuoli, detesta i sussidi governativi e sembrerebbe l’anti-statalista per eccellenza.
O almeno così oggi si dipinge.

Aiuti pubblici: male, anzi benissimo

Un esempio attualissimo di questa concezione contemporanea del self-made man – ormai lontana anni luce rispetto a quella di Benjamin Franklin – potrebbe essere rappresentato da Elon Musk. Le sue condizioni di partenza – almeno quelle economiche – non erano sicuramente di indigenza. Il divorzio dei suoi genitori, il carattere difficile del padre e il pesante bullismo subìto a scuola sono fattori che avrebbero potuto tagliargli le gambe e che Musk ha invece superato.
Pur essendo dotato di una indiscutibile intelligenza e pur ammettendo che abbia perseguito i suoi scopi con una tenacia ferrea, il fatto che ce l’abbia fatta da solo, arricchendosi unicamente grazie alle proprie capacità di muoversi nel libero mercato, senza aver bisogno di finanziamenti o appalti pubblici, sembra reggere poco.
Leonardo Bianchi, in un articolo per Valigia blu, ha analizzato come il miliardario alla guida del DOGE abbia invece nei contratti pubblici una delle fonti primarie della propria ricchezza:

Tuttavia, secondo un’inchiesta del Washington Post condotta da un team di giornalisti, lo stesso impero economico dell’uomo più ricco del mondo si è sviluppato attraverso il sostegno di almeno 38 miliardi provenienti da contratti governativi, prestiti agevolati, sussidi e crediti fiscali. Aiuti pubblici che hanno avuto un ruolo cruciale nella crescita delle aziende di Musk. Le prime tracce di questi finanziamenti, scrivono i giornalisti del Washington Post, risalgono a più di 20 anni fa.

L’articolo prende in esame il caso emblematico di Tesla, mostrando poi come altre aziende di Musk – da Space X a X Corp – abbiano prosperato e prosperino grazie a contratti di questo tipo: leggetelo tutto, è un ottima fonte di informazioni per capire il lato statalista, poco conosciuto, del padrone di X.

La pigrizia, l’immoralità e altri stereotipi

Un altro esempio vivente utile a sfatare il mito del farcela da soli tira in ballo l’attuale vice-presidente degli Stati Uniti, J.D. Vance.
“Il mito per cui J.D. Vance è arrivato sulla alla vetta con le proprie forze” è il titolo di un articolo pubblicato sul Times a luglio dell’anno scorso: l’autrice è la scrittrice Bobi Conn che ha mostrato come l’ascesa di Vance alle massime cariche dello stato non sia avvenuta solo perché ha saputo smarcarsi e superare una situazione di partenza difficile e dolorosa. Conn è nata nel Kentucky, nel cuore dell’Appalachia e, come Vance, e ha alle spalle una famiglia afflitta da gravi problemi di dipendenze, violenza domestica, povertà e disagio mentale. La scrittrice ricorda a Vance come entrambi abbiano potuto studiare grazie a borse di studio pagate da altri:

…mentre il suo memoir ha trovato eco nei lettori per la sua narrazione tipicamente americana di un self-made man, la realtà è che Vance non è arrivato fin qui da solo. Ce l’ha fatta grazie alle politiche e ai programmi che supportano la classe operaia. Infatti, è una delle poche cose che io e lui abbiamo in comune.
Ho potuto frequentare il Berea College, un college gratuito qui nel Kentucky orientale dove ogni studente lavora e che ha lo scopo dichiarato di dare un’istruzione superiore agli abitanti degli Appalachi con un basso reddito, proprio come ha istruito uomini e donne, neri e bianchi, fino dal 1855, anno della sua fondazione. Vance ha frequentato la Yale Law School con una generosa borsa di studio, un vantaggio che alcune delle migliori scuole della nostra nazione offrono agli studenti con un reddito basso.

Il memoir di cui parla Conn è “Elegia americana”: pubblicato nel 2016, è il libro autobiografico della giovinezza di Vance a Middletown, in Ohio, e della storia della sua famiglia, originaria del Kentucky, contea di Breathitt, negli Appalachi. Vi si racconta di come a causa della pesante tossicodipendenza della madre, Vance sia stato cresciuto dai nonni – anche loro con problemi di alcolismo – riuscendo grazie ai propri sforzi a studiare, laurearsi in legge a Yale per poi arruolarsi nei Marines.
Citando ancora Bobi Conn:

Vance nelle sue memorie ha contribuito a perpetuare gli stereotipi sui “poveri pigri” quando ha parlato della sua frustrazione per aver scoperto, a 17 anni, che ci sono adulti che ricevono il sussidio che osano possedere cellulari e acquistare cose che i buoni pasto non coprono (alcol e sigarette, per esempio). Tuttavia, sembra essere consapevole anche di un altro punto che è fondamentale per questa discussione, sebbene non sia un argomento popolare nel discorso politico: le nostre scelte sono plasmate dalla nostra cultura e nessuna delle questioni di classe che critica può o dovrebbe essere attribuita all’immoralità.

Gli Appalachi rispondono

Oltre a non riconoscere l’utilità dei programmi di welfare, “Elegia americana” è fortemente criticabile per il disprezzo che riversa sulle persone degli Appalachi che bolla come allergiche al lavoro e al sacrificio, svogliate e incapaci di abbandonare i vizi che non possono permettersi. L’accusa di immoralità è forse la peggiore di tutte, tanto da aver generato numerose risposte per contrastarne la rozzezza e l’infondatezza.
Ne cito solo alcune:
“JD Vance and I share Appalachian roots. He’s just the latest to exploit the region for personal profit” di Meredith McCarroll;
“What You Are Getting Wrong about Appalachia” di Elizabeth Catte;
“What JD Vance gets wrong about Appalachia” di Micah Clark Moody.
Da ricordare le parole di Barbara Kingsolver, cresciuta anche lei nel Kentucky e autrice del magnifico Demon Copperhead, opera che le è valsa il Premio Pulitzer e che degli Appalachi e della sua storia ha dato tutt’altra versione: intervistata nel podcast “Armchair Expert” (minuto 48:32) riguardo al libro di Vance dice:

La descrizione che ha dato della popolazione mi fa davvero arrabbiare. Non ha menzionato la povertà strutturale. Non ha descritto la storia di questa regione. È stata una auto-esaltazione della grandezza del risultato personale raggiunto. È l’esaltazione del farcela da soli (bootstrapping): sì, ho frequentato uno dei college dell’Ivy League e, se lavori duramente, puoi farcela anche tu. Ma in realtà, e questa è la cosa più straziante, è che non ha fatto altro che confermare gli stereotipi sull’Appalachia.

Significativo, infine, “Appalachian Reckoning: A Region Responds to Hillbilly Elegy”, un libro che è una vera e propria reazione collettiva al libro di Vance, oltre che una testimonianza della vitalità intellettuale e delle possibilità di sviluppo presenti e attive nella regione appalachiana.

L’Appalachia è una regione da sempre trattata come una colonia interna da sfruttare al massimo: dalle compagnie minerarie che ne hanno fatto la loro terra di conquista – i minatori venivano pagati con monete coniate direttamente dalle compagnie che potevano essere spesi solo nei negozi e nell’affitto delle abitazioni, entrambe di proprietà delle coal companiesa quelle farmaceutiche che qui hanno sperimentato l’ossicodone, causando la più grande e letale crisi degli oppiodi di tutti gli Stati Uniti.
E la soluzione per l’Appalachia sarebbe, secondo Vance, quella di farcela da sola: bootstrapping, tirarsi su dai propri stivali, un’espressione che arriva dal barone di Münchhausen che racconta di essersi salvato dall’affondare in una palude tirandosi su con le cinghie dei propri stivali. Un personaggio che aveva ironicamente nel proprio stemma il motto “Mendace veritas”.

Finisco con un’ultima considerazione sul mito dell’uomo che si è fatto da solo e sul prezzo che spesso questo comporta, in special modo sugli effetti collaterali che ci si lascia dietro quando – più che una legittima aspirazione a emanciparsi da una condizione di miseria – si persegue con cieca spietatezza la ricchezza e il successo ad ogni costo.
Mi viene in mente l’ultima strofa de “L’odore” di Giorgio Gaber e Sandro Luporini:

Io che conosco tanta gente
son venuto su dal niente
c’ho una bella posizione 
non è giusto che la perda
mi son fatto tutto da me 
mi son fatto tutto da me
mi son fatto tutto da me.
Mi son fatto tutto di merda.


(Immagine “Miner working with Consolidated Coal Company, Kentucky” | via Library of Congress)

Erskine Cladwell firma alcune copie delle prime edizioni de "La via del tabacco"

Erskine Caldwell, figlio di un predicatore

Quando esce “La via del tabacco” Erskine Caldwell ha trent’anni, pochissimi soldi in tasca e due figli piccoli. Vive, insieme alla moglie, nella casa delle vacanze dei suoceri a Mount Vernon, nel Maine. Coltiva patate e rape, taglia la legna, e appena può, ingolfato di maglioni per sconfiggere il freddo dell’abitazione senza riscaldamento, si mette a scrivere.
È arrivato lassù dopo aver vissuto in svariate città degli Stati Uniti, cambiando molti lavori e non abbandonando mai l’idea di vivere della propria scrittura.

Dalla Georgia – dove era nato nel 1902, lui dice nel 1903 – si era trasferito prima a Philadelphia, dove si era iscritto senza laurearsi alla University of Pennsylvania e poi, sempre in Pennsylvania, a Wilkes-Barre dove aveva tentato la carriera di giocatore di football professionista. Quindi si era spostato a Atlanta dove aveva fatto il reporter per l’Atlanta Journal, lo stesso giornale in cui lavorava Margaret Mitchell, la futura autrice di “Via col vento”. Oltre agli articoli per il giornale, Caldwell arrotondava le entrate scrivendo recensioni.
Quando era nato il primo figlio si era trasferito a Charlettosville, in Virginia, dai genitori della prima moglie, Helen Lannegan, donna colta e emancipata che aveva sposato a Washington nel 1925, di nascosto dalle famiglie di entrambi.
Con l’arrivo del secondo figlio, Erskine e Helen avevano traslocato nella casa estiva dei suoceri, detta Greentrees, nel gelo invernale del Maine. Qui per sopravvivere Caldwell aveva continuato a scrivere brevi racconti e recensioni e, con le copie gratuite dei libri da recensire che riceveva dalle case editrici, aveva aperto una libreria a Portland, gestita da Helen.

A Mount Vernon la famiglia Caldwell sarebbe rimasta sette anni durante i quali lo scrittore, soffrendo fame e freddo, avrebbe visto pubblicati i primi racconti e i suoi primi due romanzi: nel 1929, per i tipi di una piccola casa editrice, la Heron Press di New York, era uscito “Il bastardo” – da poco ripubblicato in Italia da De Piante – le cui copie venivano subito sequestrate dalle autorità del Maine e bandito in altri stati. L’anno seguente era uscito “Un povero scemo” per Rariora Press – per trovare l’ultima edizione in italiano bisogna risalire a quella di SugarCo nel 1959.
I protagonisti di questi primi romanzi sono Gene Morgan, uno sbandato dal grilletto facile, figlio abbandonato di una prostituta con la quale finirà a letto e Blondy Niles, un pugile fallito alle prese con un allucinante mondo notturno fatto di pazzi, puttane, necrofilia e malviventi.
Violenza, colpi di scena, sesso e disagio: siamo già nel pulp, ma ci torneremo un’altra volta, in un altro post.


Un consiglio di Maxwell Perkins

Siamo nel 1931 quando, grazie a un anticipo di trecento dollari avuto dalla prestigiosa casa editrice Scribner’s, viene pubblicato “American Earth” – mai tradotto in Italia – una raccolta di racconti in cui Caldwell descrive le durissime condizioni dei lavoratori degli stati meridionali degli Stati Uniti e del Maine così come i linciaggi subìti dalla popolazione nera. Sono racconti nuovi e in parte già pubblicati su piccole riviste letterarie, curati e pubblicati grazie al leggendario editor della Scribner’s Maxwell Perkins – per chi non lo conoscesse, uno che ha scoperto e lanciato le opere prime di Fitzgerald e Hemingway, per dirne solo due.
È stato Perkins il primo a pubblicargli sulla selettiva “Scribner’s Magazine”, e a pagargli cospicuamente, due racconti, dopo che Caldwell gliene aveva spediti più di cento, tutti rifiutati.
“American Earth” riceve una buona accoglienza dalla critica e è ancora Maxwell Perkins a consigliare a Caldwell di scrivere un libro sul Sud rurale, un ambiente che conosceva bene fin da quando era un bambino.

Perché suo padre, Ira Sylvester Caldwell, era un predicatore della Chiesa presbiteriana riformata che si spostava di parrocchia in parrocchia, visitando le famiglie delle campagne sabbiose delle Sandhills. Contadini che sopravvivevano coltivando tabacco e cotone. Lui e la moglie – Caroline Preston Bell, insegnante di latino e inglese che mal sopportava quell’ambiente chiuso e isolato tanto da non mandare il figlio a scuola e facendogli lezione lei stessa – dopo molti trasferimenti negli stati del Sud, alla fine si erano trasferiti nella contea di Jefferson.
Nei suoi viaggi nelle fattorie tra Keysville e Wrens – dove la famiglia Caldwell si era stabilita – il giovanissimo Erskine accompagnava suo padre, vedendo con i suoi occhi le tremende condizioni in cui vivevano i piccoli agricoltori, bianchi e neri, della Georgia orientale.

Ira Sylvester Caldwell, predicatore e sociologo dilettante

Le visite pastorali di Ira non assomigliavano a quelle di molti altri predicatori che percorrevano gli stati meridionali degli Stati Uniti in quegli anni, ingannando e travolgendo chi li ascoltava con una marea di menzogne e tirate fondamentaliste nell’unico tentativo di far sopportare a quei fisici infiacchiti dalla fatica e a quelle menti stremate dalla disperazione il loro stato miserabile. I viaggi di Ira Sylvester Caldwell, oltre a aiutare concretamente le famiglie di agricoltori più indigenti – al costo di sottrarle al sostentamento della propria famiglia non certo ricca – miravano a ricordare ai mezzadri, e indirettamente a Erskine, che la loro condizione morale dipendeva dalle condizioni economiche in cui versavano. Il reverendo Ira sapeva che la crudeltà in cui erano immerse le comunità che incontrava non erano la conseguenza di piani diabolici, ma di condizioni concrete e materiali prodotte dal sistema economico; nei suoi discorsi non aveva mai bisogno di evocare il diavolo e le sue malvagie intenzioni, cosa che invece fa puntalmente Bessie Rice, la predicatrice che ne “La via del tabacco” rende chiare come le sue convinzioni siano diametralmente opposte a quelle del padre di Caldwell.
Così parla sorella Bessie:

“I buoni predicatori non predicano su Dio e il cielo e su altre cose del genere, predicano sempre contro qualche cosa, come l’inferno e il diavolo. Queste sono le cose contro cui si deve predicare. Un predicatore non guadagnerebbe niente a predicare su Dio; deve predicare invece contro il diavolo e contro tutte le cose peccaminose e cattive. È questo che la gente vuol sentire. La gente vuole sentire parlare delle cose cattive.”

Le storie e l’ambiente che il giovane Erskine incontra accompagnando il padre segneranno per sempre la sua mente: le privazioni e gli stenti di quelle famiglie numerosissime la cui prole vestita di stracci non andava a scuola così come la violenza e l’abbrutimento morale che regnavano in quelle baracche di legno, senza luce e acqua corrente, si imprimono nei suoi ricordi e costituiranno il materiale principale delle sue opere migliori. Quella del predicatore sarà una figura che ritornerà sovente nelle sue opere, proprio a partire da “La via del tabacco” che Scribner’s gli pubblicherà nel 1932, senza cambiare nulla – parola di un gigante dell’editing come Perkins – rispetto all’originale.

Caldwell segue il consiglio di Perkins, ritorna Wrens in Georgia e come gli accadeva da piccolo, accompagna di nuovo il padre nelle fattorie che costeggiano le “vie del tabacco”, le strade di sabbia create dal rotolamento delle botti – “recipienti enormi in cui le foglie di tabacco venivano imballate dopo esser state conciate e stagionate nelle capanne d’argilla” – che andavano dalle piantagioni fino alle rive del fiume Savannah dove venivano imbarcate e portate via per la lavorazione.
La sua descrizione di questi dannati della terra – per usare un’espressione che Frantz Fanon userà trenta anni dopo per indicare altri diseredati – è cruda e senza sconti: non c’è alcuna santificazione o nobilitazione delle loro sofferenze. Non c’è la dignità e i gesti di altruismo che John Steinbeck descriveva nella grande migrazione della famiglia Joad in “Furore” né tanto meno il ritratto del Sud aristocratico e gentile che renderà popolare “Via col vento” della già citata Margaret Mitchell.

La Grande Depressione in Georgia

I personaggi de “La via del tabacco” annaspano nella pigrizia e nell’egoismo, sono preda di una promiscuità, mischiata a una foia sessuale e a un utilitarismo meschino che non esclude incesti e matrimoni di figlie dodicenni per raggranellare qualcosa da mettere sotto i denti.
Anche se il suo crudo affresco ha la forza di una potente opera di denuncia sociale e la sua indignazione di fronte all’estrema povertà è sincera, la sua penna registra impietosamente lo stato di degradazione dei suoi personaggi, fino a renderli grotteschi e ridicoli nelle loro continue false partenze o nei loro stolidi fallimenti in una situazione di enorme impoverimento generale.
Sono gli anni della Grande Depressione, anni in cui le famiglie povere del Sud affrontano carestie e avversità che le lasciano letteralmente morire di fame. La Georgia, in particolare, al momento del famigerato Martedi nero (29 Ottobre 1929) sta già soffrendo un periodo di crisi economica in atto da una decina di anni: prima la diffusione del punteruolo del cotone, un insetto che rovinò molti raccolti, poi il calo dei prezzi del cotone, dovuto alla sovrapproduzione alla concorrenza estera e infine un periodo di siccità che durò tre anni, accoppiato a un sistema di irrigazione dei campi insufficiente e antiquato. Tecniche obsolete e uno sfruttamento intensivo dei terreni per aumentare la produzione di cotone da vendere portarono infine a una vera e propria erosione e desertificazione dei terreni. Così, già prima degli anni Trenta, erano stati in molti, specialmente nella popolazione nera, già vessata da salari più bassi e da angherie razziali, a lasciare le proprie terre per andare a lavorare nelle industrie tessili delle città o per emigrare più Nord. Molti altri persero le loro proprietà divenendo mezzadri e subendo le condizioni imposte dei grandi proprietari terrieri. La maggioranza di costoro erano bianchi poveri che vivevano con un reddito annuo al di sotto di 200 dollari. Quando poi le banche fallirono, la possibilità di credito per i piccoli agricoltori si ridusse a zero e mentre la maggior parte dei grandi proprietari riuscì a superare gli anni di depressione economica, per la maggior parte della popolazione che viveva di agricoltura fu una vera e propria catastrofe.
A questo sottoproletariato agricolo bianco, o forse ancora più in basso, ormai impossibilitato a accedere a un minimo di credito per comprare sementi e concime per coltivare la terra, scheletrito dalla fame e indebolito dalla pellagra, appartiene Jeeter Lester, il patriarca protagonista de “La via del tabacco”.

Verso la fama e la ricchezza

L’ambiente e i personaggi del romanzo piacquero a buona parte della critica, anche a quella impegnata, ma fecero infuriare i politici degli stati del Sud e molti abitanti delle contee dove il romanzo era ambientato. Nonostante i molti tentativi di censura, dal romanzo fu tratta un’opera teatrale che rimase in cartellone a Broadway per più di sette anni e nel 1941 un regista del calibro di John Ford ci fece un film sopra, anche se molto edulcorato rispetto all’originale su carta.
Se ancora nel 1934, a due anni dall’uscita del libro, Caldwell riusciva a stento a guadagnare sui quindici dollari alla settimana, pochi mesi più tardi era ricco e dagli anni quaranta in poi divenne uno degli scrittori più venduti al mondo.
Per spiegare meglio tutto questo bisognerà parlare dei paperback – le versioni tascabili – di letteratura pulp e di come l’Augusta Chronicle, il giornale più vecchio di tutti gli stati del Sud, operò una vera e propria opera di fact-checking sugli scritti di Caldwell.
Però nel prossimo post, ché qui siamo già andati lunghi.


P.S.: il titolo del post riprende volutamente il titolo della famosa canzone uscita nel 1969 “Son of a Preacher Man”, riportata in auge nel 1994 da Quentin Tarantino che la volle nella colonna sonora di “Pulp Fiction”. Pulp, e siamo a tre.

(Immagine via Library of Congress | “Erskine Caldwell firma alcune copie di “Tobacco Road”” | 1936)