Sul Guardian leggo questo articolo che parla di Julia, una giovane canadese a cui il babbo, morto due anni fa, ha lasciato una collezione di più di 10.000 dischi.
Su suggerimento di un amico, Julia inizia, in maniera casuale, a condividerne dei brevi estratti su Instagram: è un modo originale e altruista per tenere vivo il ricordo del genitore e per scoprire autori e generi musicali. Ogni volta che condivide un sample non fa nessuna ricerca online: lo mette e ascolta la musica che il padre ha collezionato per tutta la vita. Così a volte può capitare – anche se è lei stessa una musicista – di incappare in scivoloni e mezze gaffe, tipo quando pronuncia come David Bairon il nome del fondatore dei Talking Heads. Ma questo non conta: oltre al fatto di custodire la memoria del babbo, conta il fatto che entra in contatto con una comunità sempre più ampia di persone interessate alla musica: a alcune fa riaffiorare avvenimenti e memorie legate a quei brani, per altre sono un ottimo aiuto per elaborare lutti simili.
In più, Julia impara anche la gentile arte di ascoltare per intero un album, abbandonando la frenesia di saltare compulsivamente da un brano all’altro: scopre l’analogico.
Le sue parole nel finale dell’articolo mi sono piaciute molto perché sono uno dei motivi per cui tengo molto alla mia collezione di libri (di vinili ne ho molti, molti meno):
“There’s something really beautiful about having physical copies of music,” Jula said. “We can laugh, but when I die, if I have kids, what are they going to be left with – a streaming library?”
(“C’è qualcosa di davvero bello nel disporre di copie fisiche della musica – dice Julia – “Possiamo anche riderne, ma quando morirò, se avrò dei figli, che cosa gli lascerò? La collezione in streaming?”)
E cosa ci incastra la tossicità dei social in questa storia? Dopo aver letto l’articolo del Guardian, vado sul profilo Instagram di Julia, mi iscrivo e inizio a leggere un post. E il primo commento (con una sessantina di like) che leggo dice: “Tuo padre aveva dei dischi terribili”.
Sono andato sul profilo della persona che l’aveva scritto e l’ho bloccato. Poi, mentre scrivevo questo post, ho deciso che avrei anche dovuto segnalarlo: sono ritornato sul post di Instagram, ma era stato rimosso. Mi dispiace, perché avrei voluto individuare e bloccare anche quella sessantina di imbecilli che avevano messo il loro like a quella micropunta di cattiveria gratuita o ignorante che non va mai tollerata.
Lo so che è la scoperta dell’acqua calda, ma conviene sempre ricordarlo: non sono i social a essere tossici o meravigliosi, sono le persone che li usano a decretarne l’utilità o la dannosità.
(Foto via soundwavesoffwax | Instagram)